mercoledì 20 giugno 2012

Europei 5

La guerra di Mario

«Questo è un paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capirne con chiarezza il perché», scrive Guido Piovene, e questa frase sembra un pallone che rimbalza veloce fino ad arrivare ai piedi fatati di Mario Balotelli. Più che il suo Europeo, questa sta diventando «la guerra di Mario». Un conflitto costantemente aperto tra lui e il resto del mondo. E non basta un gol all’Irlanda - il secondo in 11 presenze in azzurro - a sbloccarlo, a renderlo più sereno e placarne la rabbia infinita sulla quale sguazzano i tabloid inglesi.

Mentre noi, romantici latini, attratti per perenne spirito esterofilo dal primo “black-italian” della storia del calcio italiano, ci ostiniamo a tracciare ipotesi sociologiche (capro espiatorio del razzismo dilagante) o disquisire fino alla nausea del caso clinico (trauma dell’abbandono del figlio adottivo), degno dell’attenzione di Freud. L’Italia si spacca quando si parla di Balotelli, i tifosi avversari invece diventano delle belve appena vedono entrare la finta vittima sacrificale che in Premier indossò una t-shirt con su scritto «Why always me?».

Già, perché sempre tu Mario? «A 17 anni non si può essere seri», cantava Leo Ferrè e forse i 21 di Balotelli non lo mettono ancora a riparo dalle ingenuità e i limiti di un’adolescenza non ancora conclusa. Non si spiegherebbe altrimenti questo finto ghigno criminale stampato in faccia, che è anche poco credibile, perché poi chi lo conosce a fondo non fa che ripetere: «Mario è un buono, un generoso». Lo sappiamo, anche se non fa notizia Oltremanica, che negli ultimi anni invece dei classici viaggi nelle spiagge vip, ha trascorso il Natale e il Capodanno nelle favelas, con i bambini abbandonati di cui si occupa la Onlus Meu Brasil.

Esperienze da giovane sensibile, maturo, ma poi puntualmente al ritorno in campo, torna quello che non vorrebbe mai essere considerato, uno stupido bad-boy. Non c’è azione o gol mancato che non si azzuffi con l’universo. Otto turni di squalifica al City in questa stagione, un giallo alla prima con la Spagna a Euro2012 e una gomitata da rosso l’altra sera all’irlandese Dunne non vista dall’arbitro e per fortuna non andata a segno. Arbitri e avversari per lui sembrano tutti nemici da abbattere a un videogame. I compagni di Nazionale fanno fatica a tollerarlo e ancor più a frenarlo.

Dopo l’eurogol agli irlandesi, Bonucci ha dovuto compiere l’intervento più difficile della partita: stoppare la bocca carica a pallettoni di Mario. «Stava parlando in inglese, gli è uscito qualcosa di troppo. Lui è fatto così - racconta il difensore. - Aveva tanta rabbia in corpo, l’ha sfogata. Soprattutto, l’ha sfogata con un gol». Ce l’aveva con chi lo fischia e lo massacra con gli oltraggiosi "buu-buu". O con Prandelli, reo di averlo fatto partire dalla panchina. O con il mondo intero. «Siete tutti figli di…», pare abbia urlato al vento di Poznan.

Ma se anche la sportivissima Trap’s Army irlandese - che ha ritmato e applaudito persino all’inno di Mameli - ce l’ha con lui, forse sarebbe il momento che Mario si chiedesse ancora: perché sempre io? Qualcuno dice che Balotelli ce l’avesse con quei media che lo criticano e che non hanno ancora capito di che razza di “genio” si tratti. Leggenda, ma neppure troppa, narra che il 17enne Balotelli, le prime volte che si allenava con la prima squadra dell’Inter in uno dei suoi attimi di umiltà francescana proferì al veterano Hernan Crespo: «Se giochi tu in Serie A, io posso campare di rendita». Il suo unico punto di riferimento, non ha miti, è Zlatan Ibrahimovic, del quale prova a emulare, con un approccio quasi indolente, strafottenza e numeri di alta scuola, ma riuscendoci sempre a metà.

Per questo probabilmente Mario non ha ancora espresso a pieno quel potenziale che si vede che c’è, ma rischia di rimanere sepolto sotto un fascio di muscoli nervosi che producono caos e malessere generale. Mourinho gli ha staccato la stima. «Mi ricorda tanto il giovane Cassano che allenavo io», lo assolve il Trap. Quel Cassano, però di fatto bruciò almeno 5 anni, un terzo della sua carriera, prima di tornare ad essere protagonista nella Samp e in questa Nazionale.

«Auguro a Mario di non fare tutte lo sciocchezze che ho fatto io», gli disse Antonio accogliendolo tempo fa a Casa Azzurri. Ecco, Mario dovrebbe imparare a sorridere un 10% di quello che ride Cassano, ma invece si trincera in un silenzio inquietante, rotto solo dalla musica solitaria di un’i-Pod, mentre con il muso che striscia a terra fugge via. Eppure anche in Polonia, abbiamo visto bambini impazzire per un suo autografo. Mario dinanzi a questi piccoli fans si scioglie, diventa calmo e curioso, come quella volta a Manchester che entrato in un college per sbaglio, poi ha fatto di tutto per visitarlo accompagnato dagli studenti, increduli. Il problema è che appena accenna quel sorriso, l’attimo dopo si rabbuia ed è pronto a lanciare petardi dal balcone di casa, o a vomitare tutto il suo rancore, per qualcosa che non torna nella sua mente confusa e infelice.

E non bastano 4,5 milioni di euro a stagione (tanto gli passano gli sceicchi del Manchester City) per avere uno scampolo di felicità e tanto meno per aspirare a un Pallone d’Oro. Ma soprattutto non basta, ancora, per diventare un uomo vero.

Massimiliano Castellani

martedì 19 giugno 2012

Europei 4

Buongiorno Cassano

FantAntonio sblocca la partita
contro l'Irlanda: «Il mio europeo inizia adesso»

GIULIA ZONCA
inviata a poznan
Da come esulta sembra sempre che Cassano esca da una qualche marachella più che da un gol. Con quei saltelli impazziti, le mani che mulinano e i piedi che continuano a cambiare direzione perché non sa bene chi cercare, chi andare ad abbracciare. Poi si ricorda che ultimamente festeggia alla Totti e si ficca il dito in bocca, più che altro lo morde, ancora confuso sul da farsi. E visto come gli è riuscito forse questo gol è davvero uno scherzo. All’Irlanda e al destino.

Intanto lo segna di testa, fregando il tempo ad Andrews, un pennellone alto quasi 10 cm più di FantAntonio che in teoria sarebbe uno dei pilastri del Trap e poi firma la rete che sblocca la partita otto anni dopo l’inutile gol contro la Bulgaria. Quello vanificato dal biscotto nordico. Sempre l’ultima partita del gruppo C, solo che era l’Euro 2004, a Guimarães e Cassano aveva strappato la vittoria nei minuti di recupero. Poi si era messo a piangere. Zambrotta lo avevano raccolto da terra per costringerlo a uscire. In questa settimana di ansia da fregatura Cassano deve essersi ricordato spesso di quella serata da buttare.

Allora aveva sulle spalle il numero 18, giocava per la Roma, era nel pieno della fase cassanate, dicevano che sarebbe maturato. Non è successo, ma questo attaccante, il migliore nella storia azzurra degli Europei con i suoi tre gol, non è più la stessa persona. Le cassanate persistono, in Polonia ne ha sparata una di cui ancora si sente l’eco. Frase infelice contro i gay (e almeno li avesse chiamati così), poi scuse, rettifica e scarico di responsabilità però in campo una certa maturità si è vista e dopo la gara sereno e lucido ha osato: «Il mio europeo inizia adesso».

Oggi ha il 10 addosso, nessun ct distribuisce quel numero a caso e Prandelli gli ha dato un segnale: una maglia importante per compiti precisi. Lui ha si è fatto trovare pronto, tatticamente disciplinato, disponibile al sacrificio e meno concentrato su se stesso. Non poco per uno abituato a sbattere le porte, litigare con i presidenti e contestare gli allenatori. Non succede più, le cassanate girano al largo dal campo. Cassano sempre titolare, lodato per il lavoro, per le invenzioni. Preferito a Balotelli e tenuto in partita più a lungo anche se a un certo punto le forze lo mollano e deve uscire ogni volta.

E ieri il tempo è scaduto prima del solito. È un miracolato e in definitiva è questo che fa di lui un’altra persona. Il quattro novembre è stato operato al cuore e l’Europeo era l’ultimo dei suoi pensieri. Ha avuto paura di morire, poi ha temuto di dover smettere. Si è spaventato e ha fatto il bilancio con una carriera che troppe volte ha mandato in tilt. Magari non ha messo la testa a posto però si è fatto un’idea più precisa del giocatore che è, ha una posizione e prova a rispettarla. Ieri ha segnato un gol di cui ridere, uno di quelli che sistema più di un risultato perché chiude anche qualche conto il passato. Il biscotto è archiviato.

leggo per sapere

Gli adoratori del «cattivo gusto»

Fino a mezzo secolo fa o poco più la parola Kitsch era solo o quasi sulla bocca dei dotti. Si diceva Kitsch e ci si sentiva à la page. In Italia il termine entrò in voga una quarantina d’anni fa, quando Gillo Dorfles diede alle stampe un libro-antologia del «cattivo gusto».

Che cosa è il Kitsch? La sommatoria di funzioni, segni, linguaggi, cose, parole indipendenti, che normalmente contrastano o non hanno nulla da spartire tra loro, ma, grazie all’artificio del manipolatore, stanno insieme. Convivono felicemente, mischiando le loro qualità eterogenee in una sorta di processo entropico dove dalla confusione può scaturire un ordine, se non nuovo o duraturo, certo diverso e sorprendente: due o più nature che scalpitano in un solo corpo, verrebbe da dire. Gesto magico, o pseuodomagico, del creare un feticcio che esprime «il proprio tempo» come catalizzatore di pulsioni che sfuggono alla «cultura alta».

Difficile dire se prevalga l’ironia – elemento oggi prevalente in ciò che cade, o sembra cadere, sotto la categoria del Kitsch – ma certo fare una mostra-omaggio a Dorfles (che ha la bellezza di 101 anni e scrive, dipinge e lavora ancora alacremente), intitolandola Kitsch oggi il Kitsch è certamente un gioco di «cattivo gusto» sul tema che si vuole illustrare. La parabola attuale del Kitsch è direttamente proporzionale alla sospensione del "giudizio di valore" nell’esercizio della critica.

Ne è corsa di acqua sotto i ponti da quando Hermann Broch associava Kitsch e Male radicale. Da buon tedesco, vedeva nelle cattive manifestazioni estetiche, nel decorativismo, nella menzogna formale, una negazione etica, considerandola la deriva estetizzante del romanticismo. Fu accusato da alcuni di voler ridurre lo spazio di libertà dell’opera d’arte, d’imporre insomma un vicolo etico a ciò che risponde anzitutto a dettati estetici: il bene prima del bello. La ricerca del bello, per Broch, era il sintomo stesso del Kitsch. Ma Kitsch, non come mancanza di arte, semmai come opposto dell’arte; se questa cerca di fare bene, il Kitsch vuole fare bello, e per realizzare questo crea «un proprio sistema in sé conchiuso».

La conferenza dove Broch viene allo scoperto parlando dell’Uomo-del-Kitsch, risale al 1950. Agli uditori del German Club della Yale University tracciò una corrispondenza perfetta, circolare, tra «colui che come produttore d’arte produce il Kitsch e come consumatore d’arte è disposto ad acquistarlo e perfino a pagarlo assai bene». E coglieva in questo fenomeno una espressione schizofrenica delle pulsioni libidiche della borghesia (in contrasto col mito dell’ascetismo morale), e nel culto della bellezza il nuovo ideale religioso dopo quello della dea ragione illuminista: arrivava a dire che «chi in arte si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte.

L’arte è fatta di intuizioni di realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch». L’intuizione maggiore di Broch sta forse nell’idea che Kitsch sia l’espressione dell’«industria dello svago», il Kitsch diverte, ma non va in profondità, non abbaglia, come la vera arte, che accecando ci mostra la verità. Il Kitsch introduce nella visione formale dell’uomo moderno un valore inquinante, corrosivo, mistificatorio, inautentico.

È anticlassico, nell’essenza; non aspira a nulla di più che farsi feticcio di sé stesso, della propria etica "minima": a forza di banale, consumo, trash, gadget, ha imposto alla modernità quella che Sedlmayr definì la "preponderanza del finto", il potere dell’artificio come semplice fuoco pirotecnico, non certo come finzione vitale barocca. Sottilissimo il confine che nel Kitsch separa l’estetico dall’etico. Anzi, a un certo punto, Kitsch è tutto ciò che sale come scoria estetica dalle discariche della modernità. Dovremmo discutere a lungo la insoddisfacente traduzione di Kitsch come "cattivo gusto"; oggi è faticoso parlarne perché è scomparsa dall’orizzonte la parola gusto. Che era quella sensibilità culturale in cui una società intera si riconosceva.

La prima falsificazione, in fondo, si ha con la Gesamtkunstwerk  di Wagner, l’opera d’arte totale, che sembra alludere a un discorso metafisico-estetico, ma in realtà intende l’opera d’arte come il distillato che produce una esperienza storica di popolo, di un popolo, qualcosa in cui quel popolo riconosce il proprio destino. Cosa molto tedesca, anche. E Broch, infatti, lungo il discorso tira in ballo l’esteta Hitler. Ma ciò che aveva ancora sfumature romantiche, nella società postindustriale dove il consumo rappresenta una seconda forma di produttività (oggi, forse, siamo già un passo oltre, se l’economia finanziaria ha cancellato quella del lavoro e consumare significa anzitutto moltiplicare il denaro), in questa società, che chiamiamo anche postmoderna, è la pubblicità che incarna il Kitsch come sublime cattivo gusto.

La pubblicità che, dalle affiche di Toulouse-Lautrec, alle più smaliziate associazioni di elementi perturbanti pensate oggi per attirare l’attenzione non più sul prodotto ma sul marchio, il brand, porta a pieno sviluppo il principio della contaminazione delle funzioni, dei segni, dell’uso. In una prospettiva filogenetica, il Kitsch dei nostri anni non ha nulla a che vedere con l’estetismo di cui parlava Broch, se non sotto il profilo della bellezza menzognera che svuota il giudizio critico di ogni pretesa valoriale. È cambiato il referente sociale: non più la borghesia, ma la massa globale.

Il Kitsch che vediamo alla Triennale – che mischia Dalí e Savinio con le sofisticate parodie di Corrado Bonomi, il postsurrealismo ludico di Carla Tolomeo e di Vanessa Cavallotti col postPop delle fotografie di Martin Parr, i derivati gadgettistici di Rudy van der Velde col catalogo degli "ex voto" al consumismo fotografati da Matteo Girola e Juri Ciani –, in realtà compone una gigantesca Wunderkammer dove il principio del «tutto si tiene»  rende ancor più magmatico un concetto che, proprio nell’ultimo mezzo secolo, si è frazionato in una quantità di significati che vanno dalle derive spontaneistiche del Pop e del Neo Dada, al trash del riciclaggio non più della spazzatura industriale, ma delle miriadi di oggettini, cose e simboli prodotti dal consumo compulsivo della società del terziario avanzato (dove l’oggetto funge da breve sedativo della libido possessiva).

Vagando nelle sale della Triennale, si ha l’impressione di essere entrati in una immensa macchina che non narra più i rituali del desiderio, ma solo le paure e le ansie di una società malata di cleptomania, di accaparramento, dove il comico, l’ironico, il ludico mascherano la dipendenza dalla «roba» che rende Verga un po’ meno lontano. Ma se questo è l’ultimo orizzonte del Kitsch, c’è poco da stare allegri. Broch aveva visto giusto: il Kitsch è quella «non verità» che ci consente di cogliere la verità dell’arte (nella empirica concretezza dell’opera e della sua falsificazione). Ma questo potrebbe essere anche uno specchio ustorio per rileggere l’intero Novecento artistico.
Maurizio Cecchetti
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sabato 16 giugno 2012

Non dimenticare mai

Grazie a Dio siamo limitati



Jonah Lynch



Poche cose ci danno fastidio quanto il fatto di essere limitati. La parola limite innanzitutto indica la finitezza, un confine. Spesso usiamo la parola in senso negativo. Parliamo dei "nostri limiti", intendendo con ciò che non siamo perfetti. Ma questo è un uso improprio: un conto è il fatto che ho soltanto 24 ore al giorno; un altro che molte di quelle ore le uso male. Il primo, fondamentale senso della parola limite è che io ho un confine, non ho infinite risorse. Come dice il salmo 89: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10). Ecco i termini della questione: abbiamo un desiderio infinito, e pochissimi anni in cui vivere.
Tuttavia, a mio parere, il fatto di essere limitati è un dato positivo e ci insegna cose essenziali per quanto riguarda il nostro rapporto con Dio, con gli altri uomini, e con il lavoro. Pensiamo, ad esempio, alla stretta di mano. Da essa può passare una grande ricchezza di rapporto. Proprio il fatto che le mani sono limitate, che la mia mano non è la mano dell'altro, esse sono il luogo di un incontro.  Il limite è necessario alla comunione: se non ci fosse un confine, non ci sarebbe neanche quella sorpresa e quella gratitudine che sperimentiamo per la vicinanza di un altro. Nel tempo si impara che un rapporto stabile vive solo nel rispetto dei propri e altrui limiti, come accade nella fedeltà del matrimonio.
Più in generale, attraverso la mia mortalità imparo che non sono il creatore, imparo che dipendo. Dipendo persino dal cibo e dall’acqua, dipendo dal sonno. Il mio corpo mi insegna che non sono autosufficiente. Ma da questo imparo a chiedere da dove vengo e dove vado. Imparo che il mondo è buono, che è bello, e che non deriva da me. Mi precede, è più grande di me.
Dipendo anche dagli altri uomini, ad esempio nel lavoro. Ma l’interdipendenza è anche ciò che ci permette di costruire una grande opera. Collaborare con altri vuol dire fatica, compromessi, inefficienza. Ma se potessi fare tutto da solo, sarei più povero: quella scintilla creativa che nasce nel dialogo, vuol dire sostegno reciproco in tempi difficili, vuol dire amicizia, vuol dire possibilità di imparare e di crescere.
Insomma, qualunque lavoro è troppo piccolo per il nostro cuore. Siamo fatti per l'infinito e ci troviamo sempre a fare cose finite. Allora ci sono due radicali possibilità: o la realtà è negativa, un terribile inganno seguito dalla morte, in cui il meglio che si possa fare è tiranneggiare il più possibile; oppure si può trovare l'infinito all'interno delle cose pur limitate. Possiamo amare la materia stessa che ci è davanti, accettando di essere limitati dai confini dell'opera che stiamo compiendo.
Per me, l'incarnazione è il più potente insegnamento in questo senso. L'infinito stesso, Dio, si è incarnato dentro un uomo particolarissimo, soggetto come tutti noi alla stanchezza, alla tristezza, alla fame, alla sete. Egli ha vissuto con pochi discepoli, si è comunicato in modo diretto a loro, e ha affidato tutta la storia della sua Chiesa a questa trasmissione diretta di persona in persona. Non ha voluto saltare i limiti: al contrario, ha voluto che proprio dentro i limiti della carne, del tempo e dello spazio, persino dentro i limiti della morte, l'infinito fosse presente.


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giovedì 14 giugno 2012

Europei di calcio fuori dal campo 2

Calcio e gay, cassanate a parte

La dichiarazione di Alessandro Cecchi Paone, sulla presenza tra gli Azzurri di due calciatori omosessuali, offerta a Cassano come un pallone da palleggiare. Negli anni Trenta, però...

 
Alessandro Cecchi Paone ha dato i numeri senza fare tutti i nomi: in Nazionale ci sarebbero due calciatori  omosessuali, uno dei quali un tempo amico suo, due calciatori bisessuali,  tre calciatori eterosessuali anzi metrosexual, cioè eterosessuali però dediti ad una cura del corpo e degli abiti tipicamente femminile. Questi ultimi tre sarebbero Abate, Giovinco e Montolivo. 

La dichiarazione composita del celebre personaggio televisivo, protagonista di un outing di adesione personale all’omosessualità poco dopo avere festeggiato le nozze con una bellissima spagnola, è stata offerta, come un pallone da palleggiare, ad  Antonio Cassano, mandato in conferenza-stampa dal citì Prandelli a parlare di un po’di tutto, di Balotelli suo sciagurato compagno d’attacco contro la Spagna (meglio Cassano investito del  ruolo di portavoce  azzurro di giornata di Cassano che si mette magari a parlare a ruota libera, deve avere pensato lo stesso Prandelli), come delle frasi di Cecchi Paone, in fondo non inattese visto che da tempo circola nel calcio la domanda ormai rituale alla quale manca una risposta univoca: ci sono gay nella calcio? E nella Nazionale?

Il giocatore, appunto replicando a Cecchi Paone dietro sollecitazione di un giornalista, ha detto di non saper niente di gay in squadra, ha precisato che comunque non sono affari suoi, ma ha usato, nel dirlo, anche almeno un termine pesante, da omofobo. E ha dovuto scusarsi, disomofobizzarsi. Grande la eco, molti i rumori di fondo. Nel migliore dei casi, un diversivo, visto che ci si sta appropinquando al match con la Croazia in piena angoscia, come da copione. Comunque l’argomento non sembra chiuso, anche se non si capisce bene perché sia stato aperto. Per inciso segnaliamo che nel Mondiale del 2010 in Sudafrica c’era nella squadra azzurra un calciatore con seri problemi di cocaina, ma non se ne parlò, chissà se per paura, per rispetto o per mancanza di un Cassano dedito alle sue cassanate.

Nel non lontanissimo anno 1982, in occasione del Mondiale in Spagna, bastarono due intriganti righe su un giornale italiano, con riferimento al semplice fatto che Paolo Rossi ed Antonio Cabrini avevano voluto dormire nella stessa camera, per scatenare le malissime lingue e obbligare il citì Bearzot ad instaurare il silenzio-stampa, promuovendo anzi obbligando il quasi muto Zoff a portavoce. La squadra, tranquilla, arrivò al successo finale. Chissà adesso.

La domanda con cassanata praticamente incorporata nella risposta era comunque nell’aria. Pochi mesi fa c’erano state voci di presenze gay fra i calciatori italiani, Marcello Lippi ex citì le aveva escluse, almeno fra gli azzurri cioè nel mondo più suo, mentre Damiano Tommasi, presidente dei calciatori, non aveva escluso il fenomeno però aveva invitato tutti a non andare a fondo col gossip e altro, ritenendo l’ambiente del calcio nostro non ancora maturo per affrontare il tema con forza e chiarezza. Il festival del film omosessuale di Torino aveva fatto da cassa di risonanza alla questione, con produzioni sull’outing anche nello sport

E c’era stato chi, raschiando nel barile della memoria più che sfogliando archivi poveri, aveva ripescato voci peraltro assai vaghe di omosessualità di giocatori nel giro della Roma del primo dopoguerra, nonché voci decisamente meno vaghe riferentisi a un gruppo di calciatori laziali, vicini allo scandalo del Totonero (dunque a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta) e vacanzieri particolari di gruppo in un resort dentro un’oasi algerina. Niente di più, e la questione dell’omosessualità nel calcio (mai sfiorati altri sport) era rimasta in sonno per anni e anni, al massimo con pettegolezzi sparsi e deboli su Tizio e Caio. C’era stata – ecco - una vignetta impagabile, l’ammucchiata dei calciatori a festeggiare un gol e uno che, sommerso dagli abbracci dei compagni, dice ad un altro impegnato a omaggiarlo come tutti: “Ma noi due dobbiamo continuare a frequentarci così?”.

Andando molto ma molto indietro, agli anni Trenta, si trova però qualcosa di, come dire?, fondato, anche se non fra calciatori in attività: un celebre allenatore fu cacciato dal suo celeberrimo club, dopo una serie di campionati vinti anzi dominati, per sospetti forti di omosessualità da spogliatoio (si mormorò anche di pedofilia); un celebre ex calciatore, divenuto celebre allenatore dopo essere stato fra i giocatori preferiti in casa Mussolini, nonostante il fascismo machista fascista da lui esibito, fu sempre sospettato di mancanza di coraggio per fare o accettare quell’outing che invece al suo predecessore era stato praticamente e rudemente imposto.

Da registrare infine anche la scoperta di una omosessualità, come dire?, trasversale italo-brasiliana: quella di un calciatore sudamericano, in arte calcistica Vampeta, assunto dall’Inter (roba di pochi anni fa), tenuto pochi mesi e quasi mai fatto giocare perché troppo frivolo ed etereo sul campo, lui che era in realtà un’icona “ufficiale” del mondo gay del suo Brasile, dove animava riviste, poster, scene di vita assolutamente extracalcistica.


Gian Paolo Ormezzano

Europei di calcio fuori dal campo 1

Cassano, elogio della ragione



Luca Doninelli


giovedì 14 giugno 2012

Parlare in difesa della ragione, soprattutto in questi giorni, è la sola cosa sensata. E poiché questa cosa va fatta, è bene sapere, fin da principio che un simile atto richiede un certo coraggio, in un frangente in cui sembra sia diventato impossibile esprimere qualunque opinione divergente anche di un millimetro dalla tirannia dei luoghi comuni. È evidente che vogliono distogliere il nostro sguardo da qualcosa di molto grave, spronandoci a parlare di fatti senza importanza. A un certo punto, però, sembra che perfino discutere di quei fatterelli sia diventato impossibile.
Ne dico due. Insisto: sono sciocchezze. La prima è lo scandalo-Cassano. Pur giocando nel Milan, Cassano è un uomo più intelligente della media. Ha guadagnato abbastanza soldi da non doversi vergognare troppo della propria ignoranza, però quello che dice ha sempre un senso. In questi giorni la sua opinione sulla possibile presenza di calciatori gay nella nazionale italiana ha fatto il giro del mondo, suscitando uno scandalo annunciato.
Nel concerto per soli ottoni che ne è seguito mi hanno colpito le dichiarazioni di un presentatore tv gay, il quale, forse confortato dalla certezza che le sue parole sarebbero state collocate dalla parte giusta, e che la sua immagine di persona mentalmente aperta ne avrebbe tratto giovamento, ha pensato di rivelare la propria relazione con un calciatore, dimostrandosi molto bene informato circa la componente gay, bi e metrosexual nella nostra Nazionale di calcio.
Non m’interessa, qui, dare ragione all’uno e torto all’altro. Però, nel teatrino, Cassano fa la parte del cattivo e il tetro presentatore quella del buono. E questa è un’ipocrisia grande come una casa.
Io però dico che non conviene, nemmeno ai mezzi d’informazione più schierati, farla così facile, visto che facile non è. Basterebbe chiedere (a microfono chiuso) ai nuovi benpensanti se preferirebbero che il loro figlio maschio adolescente uscisse la sera con Cassano o con il presentatore, e sono sicuro che le percentuali della ragione e del torto cambierebbero di parecchio.
Non etichettiamoli come pregiudizi - parola di cui ho il sospetto ci sfugga completamente il significato. La questione è molto più profonda, e credere di risolverla cercando dispositivi di normalizzazione sociale è una pura utopia, perché questi non sono pregiudizi, in quanto richiedono una decisione di fondo circa la natura dell’uomo. E su questo, mi sia concesso, dobbiamo pretendere perlomeno il diritto alla discussione, perché nulla, nel dramma della vita, è indiscutibile. L’uomo ha la necessità di essere radicalmente persuaso, e per produrre persuasione, mi spiace tanto, ci vuole una sola cosa: la verità. Sissignori, proprio lei, l’esiliata da tutti i vocabolari civili.
La violenza superficiale dei media non serve. Anzi, sotto sotto cova la rivolta, così che possiamo svegliarci una bella mattina e scoprire, dopo trent’anni di buone maniere, che i cinquantenni sono molto meno omofobi dei ventenni. Ma della verità, e quindi della ragione, che è la sua umile contadina, non importa più nulla a coloro che vorrebbero indirizzare i pensieri della gente. Anche se lei continua a esserci, eccome.
E c’è, per esempio - secondo piccolo episodio - nella vicenda delle dimissioni del sindaco milanese Pisapia da commissario Expo. Tra i diversi modi a sua disposizione (per esempio, rimboccarsi le maniche e lavorare sodo, rompendo le scatole ovunque) per richiamare tutti i partner Expo all’azione, visto l’approssimarsi della scadenza, lui ha scelto di dare le dimissioni, di trarsi d’impaccio conservando il proprio pedigree immacolato e lasciando ad altri il proverbiale cerino acceso. Il suo è stato un atto di viltà, uno scaricamento bello e buono di responsabilità. Questo è il nome proprio della sua azione. Ha sentito puzza di bruciato e si è tolto di mezzo, tutto qui.
Probabilmente io avrei fatto peggio di lui, perciò non intendo condannarlo per questo. Però non facciamolo passare per un atto di coraggio e di responsabilità, visto che è l’esatto contrario, perché di questo passo le parole significheranno il proprio opposto, come sta già cominciando ad accadere, e non è un male da poco.
A furia di usare la comunicazione in modo così scriteriato, senza nessun rispetto della natura delle cose, finiremo - noi e la nostra multimedialità, noi e la nostra smart city, noi e i nostri splendidi modelli di sviluppo che in due anni sono diventati concime per i campi - per produrre uomini con la vita strozzata in fondo alla gola, autistici, afasici, incapaci di dire perfino “bello”, “brutto”, “mi piace” o “ti voglio bene”.
Pensiamo anche al futuro, ogni tanto. Ma quello vero.


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mercoledì 13 giugno 2012

EUROPEI 3

Prandelli: «Quando le porte
erano di sassi e maglioni»
 
 
Questa è la storia di uno di noi. Di un uomo vero di sport che ha capito, e sta facendo di tutto per trasmetterlo al mondo, che il calcio prima di un’industria, di una combriccola di padroni senza scrupoli e di finti maestri della "malaeducazione" per le nuove generazioni, è un gioco meraviglioso, quanto la vita. Per questo Cesare Prandelli ha scritto (con il giornalista Giuseppe Calabrese) una biografia, Cesare Prandelli. Il calcio fa bene (Giunti) che dovrebbe essere letta in tutte le scuole, a cominciare dalle "scuole calcio".

Dentro a questo libro (accanto ne riportiamo un brano), ci sono i ricordi teneri di un adolescente degli anni ’60, nato e cresciuto nella sana provincia italiana, a Orzinuovi (Brescia). L’ombelico del piccolo mondo antico in cui si è formato Prandelli, il ct della Nazionale che sta per partire con la prossima missione azzurra: gli Europei di calcio in Polonia-Ucraina. La sfida più importante nella sua carriera di allenatore che non ha mai smesso di essere quel ragazzino «pieno di stupore», che giocava nell’oratorio del suo paese, quello del "mitico" don Vanni. Lì è iniziata la corsa verso il grande calcio del piccolo Cesare, che si riconosceva come parte integrante di «due famiglie: quella naturale e quella acquisita: la squadra». La squadra era quella sorta dalla «squadretta», messa in piedi dall’«allenatore ragazzino», Giuliano.

«È morto giovane, ma Giuliano ha lasciato un ricordo indimenticabile nel nostro cuore perché è stato un innovatore. In un paesino sperduto della provincia di Brescia, questo ragazzo nato per il calcio ha creato il Nagc, il Nucleo addestramento giovani calciatori». Da Giuliano, Prandelli ha imparato come si forma un ragazzo attraverso lo sport e due concetti basilari, «la sintonia e la squadra». Una squadra che era quella che nasceva dalla selezione naturale dell’oratorio. «Sarò un ingenuo, ma anche adesso che faccio l’allenatore della Nazionale, credo ancora nel mio calcio, quello delle sfide, quello del campetto, delle porte fatte con i sassi e le pile di maglioni, dove il business sono la fantasia e la passione... Noi ragazzi dell’oratorio non pensavamo a un futuro da professionisti, io non sognavo di diventare ricco e famoso, mi bastavano il pallone, un campo e gli amici per giocare».

Gli amici, come Domenico che seguì, con il cuore dentro agli scarpini, alla Cremonese. Cesare ce l’ha fatta, da lì poi è arrivato fino alla Juventus di Trapattoni, così come l’altro suo grande amico di una vita, il campione del mondo a Spagna ’82, Antonio Cabrini, che alla Cremonese debuttò in prima squadra tre mesi prima di lui. Domenico invece è entrato a far parte della squadra di quei giocatori che non sono arrivati mai, ma non vive di rimpianti, fa il venditore ambulante di formaggi e Cesare non l’ha mai perso di vista. «Il venerdì, giorno di mercato, vado a trovarlo. Mi metto accanto a lui, assaggio e chiacchiero. Le signore mi riconoscono e dicono a Domenico: "L’è lu?". E lui risponde: "L’è lu, l’è lu"».

Cesare saluta cordiale e passa, dribbla il "successo" che come per Luciano Bianciardi, anche per lui altro non è che il participio passato di succedere. Lezione imparata da quei presidenti "pane e salame" che ha avuto a Cremona: Domenico Luzzara e Giuseppe Miglioli che il salumificio ce lo aveva sul serio. All’Atalanta i Bortolotti «che non smetterò mai di ringraziare» e poi alla Juventus con Giampiero Boniperti, maestro di stile e padre di intere generazioni di grandi campioni, che per Prandelli diventano tali, «solo se sono anche grandi uomini». E se sanno riconoscere i suoi tre punti cardine: «Impegno, sacrificio e rispetto».

Un tridente di moralità fissato molto prima del Codice Etico che ha voluto per i calciatori della Nazionale. L’impegno e il sacrificio si traducono in senso di responsabilità, quello che Cesare ha sperimentato a 16 anni: «Quando è morto mio padre mi sono ritrovato capofamiglia. Ho visto le mie due sorelline private della figura maschile e mi sono dovuto assumere tutta la responsabilità», ha raccontato ad "Avvenire". Il rispetto è quello che prima di tutto chiede «ci sia, sempre, nei confronti dell’avversario». Negli anni in cui allenava la Fiorentina, mutuandolo dal rugby e facendolo entrare a fatica nel calcio, ha introdotto il "terzo tempo": l’abbraccio e la stretta di mano a fine gara, qualunque sia stato il risultato. Nella sua classifica mette sempre «al primo posto: gli affetti e la famiglia». Per questi, in silenzio, senza nessuna concessione alla tv del dolore, nel 2004 ha rinunciato al contratto milionario della Roma per stare vicino a Manuela, la moglie malata di cancro.

«C’era una promessa con la Manu: se la chemio fosse stata troppo invasiva io avrei mollato tutto per starle a fianco», confessò nel nostro ultimo incontro. Manu cinque anni fa è volata in cielo, ma a Cesare ha lasciato due gemme preziose, Carolina e Nicolò che ora fa parte dello staff tecnico della Nazionale di papà. Un padre che prova a far crescere altri "figli", anche quelli più scapestrati, come Balotelli e Cassano, con i quali dice: «A volte le parole non servono, basta guardarsi negli occhi per capirsi... Il calcio è anche questo». Ma il calcio che fa davvero bene e che devono tenere a mente dirigenti, allenatori e soprattutto i genitori, è quello che riporta al potere la fantasia.

«Se fin da bambini abituiamo i ragazzi a usare scarpe perfette, pallone perfetto, il terreno di gioco perfetto, quel ragazzo non tirerà mai fuori la fantasia» Non è la regola di Prandelli, ma l’eterna legge dell’oratorio, in cui «il più bravo lo sceglie la strada». La stessa strada sulla quale è cominciato il suo sogno, portandosi dietro l’odore di pane delle cascine, il profumo dell’erba del campo di un paese di campagna e quelle sfide di gioia sudata che finivano al tramonto, al triplice rintocco della campana dell’oratorio di don Vanni. È rimasta lì, l’anima di questo fratello d’Italia del Cesare che prima di volare a "Euro2012" lancia il suo appello alla nazione: «Sosteniamo i nostri ragazzi, prepariamoli alla vita. L’obiettivo è l’uomo, il calciatore viene dopo».

 
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sabato 9 giugno 2012

Europei 2

L’inno dei fratelli di maglia

«Non siamo qui per vincere, ma per sorprendere...». Prandelli era partito per Euro 2012 con questo proposito, onesto, da realismo socialista stile vecchia Polonia, ma anche un po’ delneriano (vedi il dimesso Del Neri ai tempi della Juve). Del resto il rinnovamento azzurro c’è anche stato, questa Nazionale è sicuramente più etica e vicina alla filosofia oratoriale del Cesare da Orzinuovi («il calcio è prima di tutto un gioco» - non si stanca di ripetere), ma le scorie del recente passato non sono state ancora smaltite.

Un gironcino morbido e la qualificazione scontata a Euro 2012 con due turni di anticipo, non possono cancellare la figuraccia epocale di Sudafrica 2010: usciti al primo turno dopo due pareggi con i peones di Paraguay e Nuova Zelanda e il flop finale con la Slovacchia. Ma, si può opinare: quella era la Nazionale di Lippi. Giusto, ma 11 degli azzurri attuali sono i figli di quella gestione. Un ciclo iniziato con un titolo iridato e quattro senatori della notte magica di Berlino, a distanza di sei anni - un’eternità nel calcio tritatutto - sono ancora qui: Buffon, Pirlo, De Rossi e Barzagli. Il difensore della Juve, ironia della sorte, allora non giocò: ora è infortunato (ma resta in gruppo e secondo i medici potrà giocare dalla terza partita). Ma gli altri sono tre garanzie sicure. E allora perché una simile cortina di ferro di sfiducia?

Forse perché una Federazione sempre più assente (vedi Calciopoli e Scommessopoli) dà l’impressione di utilizzare Prandelli più come il Mario Monti della Repubblica fondata sul pallone, quindi per un governo tecnico della Nazionale di cui si ignorano termini e prospettive. Ma la missione di Cesare pare che dipenda essenzialmente dai due calciatori più ingovernabili della storia azzurra: il black-italian Mario Balotelli e l’ex casinista Antonio Cassano.

SuperMario, eroe da fumetto per i bambini di Cracovia (è il più acclamato e ricercato per gli autografi) e merce quotidiana degli inviati dei tabloid inglesi che già scommettono sulla sua prima bravata in maglia azzurra. Mario che si sente «un genio, ma non ribelle», che a 22 anni ha vinto già 4 campionati tra Inter e Manchester City, che ha promesso «grandi partite» e che se l’Italia uscirà, «lo farà a testa alta». Ma intanto con la Nazionale in 8 partite ufficiali non ha ancora segnato un gol (unica rete con la Polonia in amichevole, che sia la terra giusta per lui?). Mario anima fragile, collezionista di cartellini rossi (8 turni di squalifica) nella pur liberale Premier, del gioca e lascia giocare.

Eppure l’Italia pende dai suo piedi: «Mario, è quello che può darci quel qualcosa in più», ripetono in coro i suoi compagni fin dal primo giorno di ritiro. Tutti lo vogliono responsabile, «ma non si è ancora responsabilizzato, è lo stesso che ho conosciuto all’Inter… Mi fa arrabbiare e non solo a me», punzecchia Thiago Motta. Nel calcio però, si fa in fretta a cambiare idea, oltre che modulo. Così il bambino d’oro, viziato e immaturo che a Manchester lancia petardi dalla finestra, all’occorrenza diventa un Mandela, potenziale bersaglio delle frange razziste dell’Europa e simbolo della resistenza italiana. «Se insultano Mario, siamo pronti a reagire e ad uscire tutti assieme con lui dal campo», si stringono a coorte gli azzurri.

Ma se capitasse qualcosa di strano, il primo a supportare Balotelli siamo certi che sarebbe il suo gemello diverso, Cassano. Fantantonio in questo momento, rispetto a Mario sembra un saggio. Otto anni di differenza con Balotelli e negli ultimi due si è sposato, è diventato padre, ha finalmente vinto uno scudetto (con il Milan), ma soprattutto ha visto la morte in faccia. E quella è un’esperienza che lo ha sicuramente segnato. Nonostante il “cuore matto” e l’operazione che lo ha costretto a 5 mesi di stop, è tornato.

Resta da capire se il suo genio, merce preziosa per questa “anonima italiana”, sia intatto perché la sregolatezza parrebbe archiviata, stando a un certo tipo di riflessioni. Tipo? «Dopo aver visto morire improvvisamente in campo atleti come Bovolenta e Morosini volevo mollare». È il pensiero triste, eppure sensibilmente stupendo di un Cassano che è da Euro 2004 (l’Italia del Trap tradita dal “biscotto” Danimarca-Svezia) che cerca se stesso e insegue la vera consacrazione internazionale.

«Voglio vincere il Pallone d’Oro», spara SuperMario. «Spero di continuare a giocare ancora un po’ e a divertirmi», dice un Cassano in pieno stile Prandelli. Non c’è difesa a tre che tenga o De Rossi in versione Cannavaro che funzioni o meno (a Zeman non piacendo). Se Mario e Antonio non si illuminano, questa Nazionale resterà al buio. E noi con loro.

Massimiliano Castellani
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Gli Europei di calcio 1

Calcio, benvenuti all'Est

​Scherzosa e un po’ beffarda, la sorte ha deciso che la partita inaugurale degli Europei 2012 si giocherà tra Polonia e Grecia, una sfida altamente simbolica tra il Paese risorto da una lunga storia di miserie e privazioni e quello precipitato nel girone infernale della crisi più nera.

È con legittimo orgoglio che la Polonia ospiterà la grande manifestazione calcistica insieme con l’Ucraina. Per la prima volta un importante evento sportivo viene organizzato congiuntamente da due Paesi dell’Europa dell’Est, entrambi usciti dal comunismo ma con percorsi molto differenti. Da quando nel 2004 è entrata nell’Unione Europea, la Polonia non ha smesso di correre e oggi è l’unica nazione del vecchio continente, insieme alla Germania, che gode di un’invidiabile stabilità e di un forte dinamismo. Si capisce quindi il desiderio dei polacchi di trasformare gli Europei di calcio, che si aprirono venerdì prossimo, in una scintillante vetrina dei propri successi.

Tutti sanno che la Polonia è la terra di Giovanni Paolo II e di Solidarnosc, e anche i visitatori più distratti non faranno fatica a scoprire, girando per Varsavia, che i due più grandi viali del centro portano i fatidici nomi che hanno cambiato la storia. Ma in Occidente non sono del tutto scomparsi i vecchi stereotipi che considerano la Polonia come un pezzo di «un’altra Europa», grigia, triste e arretrata. Niente di più falso. Il più vasto e popoloso Stato fra tutti quelli entrati recentemente nella Ue è un Paese giovane, (40 milioni d’abitanti con età media sui 38 anni), una società vivace, una nazione ricca di cultura e aperta al mondo, attaccata alle sue tradizioni e al tempo stesso capace di grandi innovazioni. E per Euro 2012, nelle quattro città che ospiteranno il torneo, ce l’ha messa tutta al fine di sorprendere i visitatori con impianti sportivi avveniristici, inseriti in contesti urbani riqualificati e centri storici restaurati in tempi record.

A Varsavia il nuovo Stadion Narodowy è una gigantesca corona bianco-rossa, i colori della bandiera nazionale, che segna il profilo della capitale. Dotato di una copertura mobile a ombrello, non è solo un’arena sportiva ma una struttura multifunzionale con centri commerciali, piscine olimpioniche e spazi per grandi eventi. Costruito sul sito del campo di calcio d’epoca comunista, il nuovo stadio sorge sul lato sinistro della Vistola, a Praga (nulla a che vedere con la capitale della Repubblica ceca, Praha<+tondo> in lingua slava), l’unica zona sopravvissuta d’anteguerra, un quartiere tradizionalmente povero e malfamato che oggi è diventato modaiolo grazie a locali alternativi, centri culturali e gallerie d’arte nati all’interno di vecchie fabbriche dismesse.

Oltre alla capitale, la Polonia ha messo a disposizione dei campionati europei tre città fra le più importanti. Danzica, la culla di Solidarnosc, la cui epopea si può rivivere nel museo a fianco dei mitici cantieri navali dove scoppiò lo sciopero del 1980. Poznan, città d’arte con l’università frequentata di studenti di tutto il mondo. Wroclaw (Breslavia per gli italiani), incantevole città con 130 ponti, un tempo tedesca e oggi simbolo della rinascita industriale polacca. È rimasta esclusa Cracovia, la meta turistica e religiosa più conosciuta. Ma i tifosi italiani avranno occasione di visitarla perché gli azzurri faranno base a Wieliczka, nei pressi della famosa miniera di sale a 40 chilometri dalla città di papa Wojtyla, e si alleneranno nello stadio del Wisla Cracovia.

Punto debole sono le vie di comunicazione. «Evitate di viaggiare in auto», è il consiglio del giornale Gazeta Wyborcza. Le strade in Polonia sono rimaste quelle di trent’anni fa, per gli Europei di calcio sarà aperta l’autostrada Berlino-Varsavia, ma chi vorrà seguire la nostra nazionale a Varsavia, Danzica e Poznan sarà meglio che prenda l’aereo. E c’è chi, come l’inglese Bbc, ha lanciato l’allarme per il rischio violenze, puntando il dito contro il nazionalismo polacco. «Non c’è alcuna minaccia razzista» ha risposto seccato il premier Tusk. «Gosc w dom Bog w dom», «l’ospite a casa è come Dio in casa», recita un proverbio polacco citato anche dai vescovi nel loro appello a giocatori e tifosi. Ma resta la tensione per la partita Russia-Polonia, un altro scherzo del sorteggio che ha collocato nello stesso girone due nazioni storicamente ostili. A tal punto che il ministro polacco dello sport, la signora Joanna Mucha, ha chiesto alla delegazione russa di cambiare sede: troppo vicina al luogo dove, il 10 di ogni mese, il partito conservatore di Kaczynski tiene una manifestazione in ricordo della tragedia aerea di Smolensk in cui morirono il gemello presidente ed altre 95 persone.

Luigi Geninazzi
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Fà riflettere............................................

Tra fanatismo e cinismo

sabato 9 giugno 2012
 Di fronte alla sofferenza si oscilla spesso tra due atteggiamenti fondamentali, in qualche modo opposti, ma in fondo coincidenti: il fanatismo e il cinismo. Il primo si esprime nell’ostinato tentativo di modellare la realtà secondo una propria idea, il secondo invece nella rassegnata rinuncia ad impegnarsi veramente nella realtà. Ambedue gli atteggiamenti concordano nella convinzione che la realtà così come è non abbia senso e non sia buona.
C’è un terzo atteggiamento che costituisce la vera alternativa al fanatismo e al cinismo: la serenità e la letizia. È l’atteggiamento di chi sa che la realtà ultimamente è buona. La saggezza popolare lo insegna con il seguente detto: «Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza per riconoscerne la differenza». Spaemann chiama questo terzo atteggiamento «abbandono fiducioso» e ritiene che si tratti di una delle conquiste fondamentali della vita morale di una persona.
Come possono convivere letizia e sofferenza, letizia e morte? Solo nella misura in cui intuiamo che ultimamente anche la sofferenza e la morte hanno un senso, sono parte del volto buono del Mistero che fa tutte le cose. Dove sta allora il valore principale della malattia? Nell’essere profezia della morte. La morte sollecita l’uomo a rendersi conto di chi è lui e di chi è Dio, se accettiamo che sia Lui a decidere della nostra vita. 
Ho lavorato alcuni anni fa per il vescovo di Lugano Eugenio Corecco, colpito da una rara forma tumorale che lo portò alla morte. «La malattia – raccontava – se vissuta bene, è il momento pedagogico all’interno della vita umana che meglio di tutti gli altri ci può aiutare a capire chi siamo noi, chi è Lui e quanto più grande sia Lui». Dio, nella sofferenza, ci chiede di dare una risposta alla domanda se siamo disposti a fare la sua volontà. Tale domanda fa scoprire tutta la nostra solitudine. Nessuno infatti può sostituirsi alla nostra libertà. Ma come abbiamo detto all’inizio, tra il fanatismo di chi vuole l’impossibile e il cinismo di chi non si muove, c’è una terza possibilità. Quella dell’uomo sereno che si impegna davvero, abbandonandosi alla potenza di Dio.


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giovedì 7 giugno 2012

oggi si legge................................

Il Signore sulle strade del mondo

Una festa della fede, una sorta di «catechesi popolare» che si lega alla storia di numerose città. Il Santissimo Sacramento esce dalle mura delle chiese per abitare le vie e le piazze attraverso le processioni, che in molti casi sono accompagnate dalle tradizionali «infiorate».

Oggi la Chiesa celebra il Corpus Domini, una solennità relativamente recente, istituita nel 1264 da papa Urbano IV con la bolla Transiturus de hoc mundo e firmata in seguito al miracolo di Bolsena dell’anno precedente, quando un sacerdote boemo, assalito dai dubbi sulla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, celebrando la Messa vide sgorgare sangue dall’ostia.

Dalle metropoli ai piccoli centri questa solennità, in cui il mistero del pane spezzato viene proposto all’adorazione e alla meditazione, chiama a raccolta migliaia di fedeli. Oggi a Roma, alle 19, Benedetto XVI celebrerà la Messa sul sagrato di San Giovanni in Laterano, per poi presiedere la processione che, percorrendo via Merulana, arriverà fino alla basilica di Santa Maria Maggiore.

A Milano la ricorrenza liturgica quest’anno rappresenterà anche un’occasione di ringraziamento per le ricche giornate del VII Incontro mondiale delle famiglie. Oggi, dopo la Messa delle 20 nella Basilica di San Carlo al Corso presieduta dal cardinale Angelo Scola, partirà la processione che passerà per le vie del centro storico e si concluderà in Duomo.

A Torino, invece, il Corpus Domini coincide con l’anniversario del miracolo eucaristico del 6 giugno del 1453 quando, in seguito a un furto in una chiesa, un’ostia consacrata si sollevò dalla sacca di un mulo e rimase sospesa in cielo. Ieri sera l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha celebrato in Cattedrale la Messa a cui poi è seguita la processione.

In Emilia Romagna la celebrazione è condizionata dagli eventi sismici delle ultime settimane. Proprio a causa del terremoto a Bologna l’Eucaristia, presieduta dal cardinale Carlo Caffarra, si svolgerà stasera nei cortili dell’Istituto salesiano. Con molte chiese storiche danneggiate e dunque inagibili, nell’arcidiocesi di Modena-Nonantola la celebrazione il Corpus Domini si terrà stasera nella parrocchia di Gesù Redentore. Seguirà una breve processione eucaristica che sarà dedicata in modo particolare alle vittime del sisma. La Chiesa di Ferrara-Comacchio ha scelto invece di celebrare la solennità nella "piccola" Copparo, perché soprattutto in questi momenti difficili, è importante che la comunità capisca come nel territorio dell’arcidiocesi non esistano né centri né periferie.

A Firenze stasera il cardinale Giuseppe Betori guiderà la processione con l’Eucaristia che partirà dalla cattedrale di Santa Maria del Fiore per concludersi in Santa Maria Novella. Nella Chiesa di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo, a causa di alcuni cantieri presenti nel centro storico del capoluogo lucano, la tradizionale processione presieduta dall’arcivescovo Agostino Superbo subirà dei cambiamenti di percorso, ma vedrà come sempre una grande partecipazione di fedeli.

In alcune zone di Lazio, Umbria e Molise il Corpus Domini si intreccia anche con le dimensioni culturali e artistiche. A Campobasso, ad esempio, domenica si terrà la tradizionale sfilata dei «misteri», con il passaggio per le vie della città di tredici carri portati a spalla su cui sono rappresentate «scene sacre». Novità di quest’anno, annunciata dall’arcivescovo di Campobasso-Bojano Giancarlo Maria Bregantini, la «Tenda dell’Eucaristia» con la distribuzione della colazione e del pranzo a tutti i poveri e i disagiati che si recheranno nel capoluogo molisano in occasione della solennità.

Non mancheranno in molti comuni le caratteristiche «infiorate». Allestimenti di tappeti colorati e profumati che vanno a formare dei veri e propri quadri naturali. La tradizione, nel segno della devozione popolare, si rinnova ogni anno in molti comuni laziali, da Bolsena a Gerano. In queste località i maestri infioratori si cimentano in creazioni artistiche utilizzando petali di garofano, la ginestra per "fare" il giallo e la cosiddetta «finocchiella» per il verde. Tra gli appuntamenti storici e più conosciuti c’è senz’altro quello di Spello, in Umbria, dove domenica gli organizzatori si metteranno a lavoro già dalle prime luci dell’alba per realizzare ben 60 opere. Come ogni anno, tra sabato e domenica, si riempirà di colori e profumi anche il borgo di Torricella Sicura, dove si svolgerà un’infiorata ormai entrata nel cuore di tanti fedeli della diocesi di Teramo-Atri.

Un’infiorata meno conosciuta, ma quest’anno particolarmente sentita, è quella di Brugnato, borgo di 1.200 anime in provincia di La Spezia. Qui gli effetti dell’alluvione dell’ottobre scorso sono ancora visibili, le attività commerciali fanno fatica a risollevarsi e la solennità del Corpus Domini è richiamo di speranza.

Luca Mazza

mercoledì 6 giugno 2012

un'altra passione:mangiare3

martedì 5 giugno 2012

un'altra passione mangiare 2

Tortiglioni carciofi e fave


lunedì 4 giugno 2012

Passione calcio sportivo

Coraggio Italia, i Maya possono aspettare

Chiamiamola con il suo nome, iella. Sotto schiaffo dal primo giorno del raduno, tra bufere e imprevisti, dallo svolazzare di avvisi di garanzia a Coverciano agli sberloni in amichevole (vedi Russia), gli “sfigatelli” della Nazionale di Prandelli vivono giorni da perseguitati. Azzurro tenebra.
Peseranno più le tensioni giudiziarie o le gigantesche amnesie in difesa, si chiede il tifoso da bar e/o Twitter a poche ore dal volo per Cracovia? Mah, comunque bisogna trovare in fondo all’abisso la forza di sperare. Ne bastano sei, in fondo, di motivi cui aggrapparsi per non celebrare in anticipo il funerale della Nazionale. Altrimenti sai che noia in Polonia.
1) Affidarsi al blocco Juve è una scelta vincente del ct Cesare. La formazione dettata dalla magistratura – fuori Buffon, Bonucci e chissà quanti altri – dava meno garanzie.
2) Nonostante quello che si va sentendo in giro, la comunità calcistica ci guarda con indulgenza e simpatia: il boss Platini è un vecchio piemontese d’adozione. L’Uefa dell’amico Michel, piccolo esempio, distribuisce in Rete ciambelle di salvataggio. Sapete come il sito dell’Uefa presenta Mario “why always me” Balotelli? Un calciatore famoso per il suo comportamento “anticonvenzionale”. Un giorno incendia casa, l’altro tira freccette dalla finestra, il terzo segna un gol pazzesco di spalla e all’Uefa lo definiscono “anticonvenzionale”. Alla faccia degli eufemismi. Neanche Mino Raiola avrebbe saputo fare di meglio. Merci, le Roi
3) Il debutto del 10 giugno contro la Spagna campione di tutto è da togliere il fiato, ma il derby italo-iberico sullo spread che si gioca quotidianamente sui mercati non è da meno. A sentire il premier Monti siamo in vantaggio sul fronte del debito e la ministra Cancellieri (tifosa doc) non scambierebbe mai e poi mai capitan futuro De Rossi con Iniesta. Segnali.
4) Il nostro più grande amuleto è Giovanni Trapattoni. Giuan da Cusano Milanino ci porta bene, averlo nel girone è una manna dal cielo.
Ha portato la sua Irlanda in ritiro a Montecatini osannando le “acque portentose” delle terme, lui che di acque sante se ne intende fin dall’era B-Moreno. Abbeveriamoci alla fonte del Trap e la salvezza arriverà.
5) Parliamo di scommesse? La vittoria finale degli azzurri all’Europeo è quotata a 13. Numero fortunato che nella smorfia napoletana corrisponde a Sant’Antonio. Se i simboli valgano ancora qualcosa il nostro destino passa dai piedi di Cassano, un miracolato.
6) La profezia Maya incombe ma per le sventure ci stiamo attrezzando. Recita Wikipedia a proposito dei famigerati Maya: “Si dovrebbe verificare un evento, di natura imprecisata e di proporzioni planetarie, capace di produrre una significativa discontinuità storica con il passato“. Tradotto: vincere, finalmente, un Europeo dopo quasi mezzo secolo di vacche magre. Il 21 dicembre 2012 sapremo se sarà arrivata prima la fine del Mondo o quella del calcio italico. Più o meno la stessa cosa.
P.S Lo stesso giochino era stato proposto in prossimità della partenza del mondiale sudafricano, conclusosi poi tragicamente. Chiediamo scusa in anticipo.

domenica 3 giugno 2012

un'altra passione.:mangiare................................

Timballo di pasta, zucchine e fiori di zucca

300g di sedani rigati 650g di zucchine romanesche ½ cipolla bianca tritata 12 fiori di zucca Basilico q.b. 80g di grana grattugiato 150g di provola affumicata 200ml di besciamella Burro q.b. Olio, sale e pepe q.b.
Appassire la cipolla tritata in padella con 3 cucchiai d’olio, unire le zucchine affettare a rondelle sottili e cuocerle per 10’. Aggiungere metà dei fiori di zucca, privati del pistillo e strappati con le mani, il basilico spezzettato ed una macinata di pepe; chiudere con coperchio lasciando cuocere le erbe col vapore della cottura delle zucchine per un altro paio di minuti. Scolare la pasta al dente e condirla con tale sugo, più burro e metà del grana grattugiato. Versare metà della pasta in una pirofila unta di burro; aggiungere uno strato di provola affettata sottilmente, coprire con un secondo strato di pasta, coprire il tutto con la besciamella ed il restante grana grattugiato. Decorare con i rimanenti fiori di zucca aperti a libretto e gratinare in forno per 20’-30’ a 200°.


sabato 2 giugno 2012

fragole,ciliege ......................................

  • RISOTTO ALLE FRAGOLE

    Ingredienti Risotto alle Fragole per 4 persone:

    • 15 fragole 
    • 1 bicchiere di vino bianco 
    • 1 scalogno 
    • olio
    • 300 gr di riso 
    • sale 
    • pepe rosa qb
    • 2 cucchiai di dado granulare vegetale 
    • acqua calda qb 
    • burro qb 
    • parmigiano qb
    • erba cipollina qb
    Procedimento
    1. Tagliare le fragole e metterle a macerare nel vino.
    2. Affettare lo scalogno e soffriggerlo in padella con olio.
    3. Aggiungere il riso e tostarlo.
    4. Sfumare il riso con il vino delle fragole.
    5. Salare, aggiungere il pepe rosa tritato grossolanamente.
    6. Iniziare a cuocere aggiungendo poco per volta brodo preparato con acqua calda e dado.
    7. A metà cottura unire le fragole.
    8. A cottura ultimata mantecare con parmigiano e burro.

    • -

venerdì 1 giugno 2012

Passione maglia a ferri 1

Quanti stili per la maglia. Introduzione

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Esistono un numero eccezioonale di diversi stili per la lavorazione a maglia, e con stili intendiamo modi diversi di impugnare ferri e filo e di formare la maglia. Il risultato è più o meno sempre lo stesso, un “tessuto” a maglia che può essere adattato a ogni tipo di lavorazione, in piano come in tondo, a pizzo, a fair-isle o Aran, ogni singolo tipo di lavorazione può essere eseguito in numerosi stili diversi. Eppure, chi lavora a maglia conosce di norma un solo stile e ben di rado è stata esposta a stili diversi, al punto che chi lavora con uno stile “esotico” rispetto a quello prevalente nell’area in cui si trova capita venga apostrofata con un secco “Ma lavori sbagliato!”.
Secondo noi non esiste un modo giusto e uno sbagliato di lavorare a maglia, esistono solo modi diversi e che possono essere più adatti a una persona anziché a un’altra. Anzi, ci piace incoraggiare a imparare metodi diversi di lavorazione: poter usare più stili spesso si traduce in un vantaggio perché per esempio, permette di cambiare stile e quindi posizione quando ci si affatica o permette di ibridare le tecniche per realizare lavori con effetti particolari.
 

Gli stili della maglia si dividono essenzialmente a seconda di due variabili: in quale posizione viene tenuto il filo e in quale verso viene gettato il filo attorno al ferro. Nel primo caso, il filo può essere tenuto nella mano destra (tecnica English e affini), nella mano sinistra (tecnica Continental e affini) oppure attorno al collo o tenuto in posizione con una spilla speciale e manovrato con il pollice sinistro (tecnica portoghese). Nel secondo caso il filo può essere gettato in verso orario (tecniche occidentali), in verso antiorario (tecniche orientali) o alternando il verso orario per il dritto e il verso antiorario per il rovescio (tecniche combinate).
Mano a mano illustreremo le peculiarità di vari stili  parleremo di alcune tradizioni correlate, cercheremo anche di darvi indicazioni su come imparare a lavorare i vari stili della maglia: magari non sostituiranno il vostro stile principale, ma sarà sicuramente interessante apprendere come funziona