mercoledì 30 maggio 2012

Reggio -Emilia terremoto 2

l prete e il drago

​Non era mica un temerario. Si chiamava don Ivan, aveva 65 anni. Ed era parroco a Santa Caterina di Rovereto di Novi, nel Modenese, da sette anni. Dopo che la terra, come un drago non più mansueto, aveva tremato la prima volta nella giornata di ieri, era tornato nella sua Chiesa per vedere come stavano le cose. E lì è stato mortalmente colpito da un grande frammento caduto. Era tornato nella sua Chiesa, nella casa di Dio. In questi giorni sembra quasi che il buon Dio voglia farci riflettere sul fatto che mentre la casa di Dio, come ha detto il Papa, è scossa da tempeste ma non cade, anche là dove cede la costruzione in muratura, e dove si schiantano – dopo decenni o secoli – le testimonianze di fede del nostro popolo, non crolla la fede, non crolla la Chiesa invisibile che sempre ama e ricostruisce la Chiesa visibile.

Don Ivan, con il suo gesto semplice, non ingenuo (era in compagnia dei pompieri), non spavaldo, ci ha mostrato cosa significa amare la Chiesa visibile. Ha compiuto il gesto che tutti i parroci fanno quando c’è una situazione del genere. Poste in salvo le persone, si va a vedere come sta la Chiesa. Poste in salvo le vite, si va vedere come sta il segno del senso della vita. Non è stato il gesto di un capitano che non vuole abbandonare la barca. I nostri parroci non sono capitani di niente, ma sono servi di quel luogo. Di quel luogo che anche nel nome evoca la casa (para oichìa, tra le altre case), dal greco: la casa di Dio, del senso di tutto il vivere e il morire che va in scena intorno e dentro di essa.

Non è stato un capitano, don Ivan. È stato di più. Non si trattava di non abbandonare una barca – gesto eroico, ma in fondo inutile se poi la barca va giù – ma si trattava di vedere come reggeva il segno del senso della vita. Quel segno che lui stesso portava nella carne, avendo ricevuto il sacramento del battesimo e poi del ministero. Essendo lui stesso segno, servo di Dio nel mondo. La sua testimonianza, la sua inaspettata grandezza – sì, inaspettata, e gli è toccata in sorte proprio nell’atto di morire – sono ora un segno per tutti circa il metodo che Dio usa per stare con il suo popolo: una casa in mezzo a noi. Una <+corsivo> para oichìa.

Era tornato a vederla, la sua chiesa di parrocchia, dopo che la terra drago aveva tremato, la terra povera creatura come noi, abitata da fratture, da movimenti incontrollabili. Una casualità, si dice. Ma questa parola che acceca e ferisce per quanto è aspra se viene usata per i casi di morte, è parola strana. Quando la usiamo in altri frangenti e indichiamo, che so, la casualità di un incontro, di una occasione, qualcosa di inatteso che ha dato sapore alla vita, ecco che la parola casualità – la stessa che ora mormoriamo insieme ai requiem per don Ivan – ci appare quasi festosa, quasi luminosa. Una casualità forse aver incontrato la donna che amiamo, una casualità che i nostri figli siano nati oppure no, una casualità aver trovato un lavoro, o addirittura, come insegnano molti scienziati, aver scoperto qualcosa di importante nella storia del progresso della umanità. È una parola che non si riesce ad addomesticare, che non riesci ad afferrare in un preciso significato. Se la applichi alla morte, è piena di pianto. Se la avvicini a circostanze liete della vita, sorride.

Don Ivan – con la umile evidenza che gli viene dall’indossare una veste che lo rende uguale e diverso ai suoi paesani – ci ha ricordato che la parola che governa la nostra vita è casualità. L’ha portata per così dire lui addosso, con il suo morire, l’ha portata fin lì dove solo può essere pronunciata con un significato pieno, con il cuore che trema ma non resta preda di macerie: ha portato la casualità dove si rivela come Mistero. Come Padre a cui gridare e tendere le mani nella casa che ha eretto per tendere le Sue mani verso di noi.

Davide Rondoni

martedì 29 maggio 2012

Maggio 2012 due grandi scosse di terremoto in Emilia.................. .

Il terremoto e la croce



Redazione




La terra drago sussulta ancora. È accaduto ancora in Emilia, ieri mattina. La terra ha tremato sotto le macerie, facendone altre. Nuove scosse hanno tirato giù case, fabbriche, chiese. Nessuno sciame sismico, ci dicono, questa è un’altra cosa, un altro terremoto, come se quello dell’altra volta non fosse bastato. Nuovi morti, altri sfollati, 8mila, si aggiungono a quelli che già sono fuori dalle loro case o le hanno perse del tutto. Il terremoto ha colpito ancora lì. Modena, Mirandola, San Felice sul Panaro, Concordia, Novi, Finale Emilia. Ma lo hanno sentito tutti, nel nord. Qualcuno ha detto che quello che è successo “ha rimesso in discussione tutte le strategie”. 
Di fronte allo sgomento per questi fatti e alla morte casuale e ingiusta che portano con sé, viene la tentazione di pensare alla terra come a una specie di madre-matrigna. Una madre cattiva. Mentre invece la terra è nostra sorella. È una povera creatura come noi, ha delle imperfezioni, delle fratture, dei sussulti. Ha dentro qualcosa che la rende imperfetta, come siamo imperfetti noi. 
È solo una ideologia sbagliata, di tipo naturalistico e panteistico, che vede nella terra una specie di soggetto buono, come se fosse un essere perfetto e assoluto, scambiando la terra con una sorta di divinità. No, la terra non è nostra madre, ma nostra sorella. Ci sostiene, ma è una sorella difettosa, di cui ogni tanto paghiamo l’essere limitato. Esattamente come il nostro. Entrambi, noi e la terra, siamo fragili perché siamo creature.
Quando accadono queste cose siamo improvvisamente sbattuti di fronte a quello che non possiamo mutare. Il terremoto mette la nostra faccia davanti alla casualità. Alcuni perdono la vita per la caduta casuale di una pietra. Mentre questo accade, altri, senza un apparente perché, si salvano. Durante un terremoto ti salvi o muori, per caso. Casualmente incontriamo la persona che amiamo, casualmente ci troviamo a vivere in una città piuttosto che in un’altra. 
Usiamo la parola caso per addomesticare un’altra parola più grande, che è mistero. Il terremoto ce la ripropone, in maniera drammatica e orribile, come l’amore ce la propone in maniera dolce. In fondo ad ogni esperienza umana, compreso il piacere, si tocca l’esperienza della casualità. Per questo il terremoto, se ha qualcosa di buono, ha solo il fatto di invitarci ad essere più coscienti della vita intera. 
Quello che tutti possono fare, mentre alcuni sono chiamati al difficile compito di rimettere in piedi i muri abbattuti, è ricostruire una coscienza più vasta e viva e acuta di cos’è vivere. Solo per questo i terremoti non passano inutilmente. La cosa ancor più tremenda sarebbe che un terremoto, oltre che terribile, fosse vano. 
Il fatto è che anche la terra, come noi, ha bisogno di essere liberata dal male. Proprio le chiese e i campanili sbrecciati al cuore di questi paesi ce lo mostrano. C'è una speranza che non viene meno neanche di fronte al più grande dei terremoti. Non la speranza di una vita senza problemi: piuttosto quella che viene da una croce, annuncio di resurrezione, significato misterioso di un dolore altrimenti destinato a rimanere senza senso. Sta in quella croce, per tutti, la vera forza di ricominciare.


© Riproduzione riservata.


 

domenica 27 maggio 2012

Domenica di Pentecoste.....................................................

La causa e il fuoco

Conclusa l’opera redentrice di Gesù sulla ter­ra, con la Pentecoste ha inizio la conversione dei popoli al Vangelo per impulso dello Spirito San­to. Le grandi festività, le ricorrenze cristiane più preziose hanno significati sempre nuovi nel cor­so del tempo, nei momenti più difficili e in quelli costruttivi. La discesa dello Spirito Santo nella Pen­tecoste non ha cambiato i fatti della storia, ma ha permesso di leggerli in una nuova luce, ha tra­sformato gli apostoli, li ha resi capaci di agire nel­la storia per cambiarla, elevando l’uomo alla di­mensione spirituale. La Pentecoste costituisce un grande evento di libertà, perché apre la porta al di­scernimento del bene dal male, e più volte Gio­vanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ricordato che il mondo, allontanandosi da quella luce, si tro­va come in un cono d’ombra, ove si offusca l’oriz­zonte etico necessario allo sviluppo dell’uomo, ma il loro magistero ha ricevuto critiche quasi fosse in­triso di pessimismo. È vero il contrario, perché l’Occidente e l’Europa si trovano oggi nel pieno di un esame di coscienza che coinvolge scelte sba­gliate, registra la caduta di fiducia in un progresso continuo, in un futuro di speranze e prospettive.

L’esame di coscienza è di tutto l’Occidente, e l’I­talia ha motivi specifici per uno smarrimento co­sì grande. Il cuore dello smarrimento sembra il go­verno dell’economia, ma la caduta di fiducia coin­volge la capacità di saperci governare, di essere solidali. Ci accorgiamo che l’uomo resta capace di fare il male come in passato, praticare un ter­rorismo che assume volto politico o semplice­mente disumano, decidere chi debba vivere e chi debba morire durante e dopo la procreazione. Il primo passo della nuova nascita, ispirata dalla Pentecoste, è quello di saper guardare dentro se stessi, come fecero gli Apostoli uniti in preghie­ra a Gerusalemme, di «riconoscere le vie della vi­ta » (Atti 2,28), di seguire quei princìpi che go­vernano le attività umane indirizzandole al be­ne. Sembrano parole dirette ai cristiani, invece riguardano tutti. L’errore più grande che po­tremmo commettere è di ritenere che non appe­na si avrà una schiarita nella crisi economica ces­serà l’ansia che ci tormenta.

In realtà, la crisi economica è l’effetto, non la cau­sa di una più generale crisi morale. Attuare rigo­rose misure non basta, se non si imprime uno svi­luppo che veda nella sobrietà non l’illusione di un momento, ma un modo d’essere che plasmi i rap­porti tra i gruppi sociali. Ottenere la fiducia tem­poranea dei mercati non è sufficiente se non si sconfigge la speculazione finanziaria giunta a li­velli internazionali devastanti, e non si rapporta­no le economie dei Paesi occidentali ai bisogni dei Paesi poveri che non possono più essere ignorati e compressi. C’è oggi un rinnovato interesse ver­so la dottrina sociale della Chiesa, ci sono gover­nanti che riconoscono che tante sue indicazioni hanno rivelato una validità e una capacità di pre­visione superiore a quella di importanti scuole di pensiero economico. Però, non si tratta di una ca­pacità di previsione di tipo tecnico, affonda le ra­dici in una lungimiranza antropologica che pone altri interrogativi.

Può rovesciarsi la logica economica di dominio se non si realizza un cambiamento radicale della co­scienza etica. Si può essere solidali in economia e individualisti nella vita privata e sociale, si posso­no tutelare i più deboli e abbandonare a se stesso, o colpire definitivamente, chi non può neanche difendersi, con leggi e usi favorevoli all’aborto, al­l’eutanasia, alla svalutazione della famiglia, all’e­saltazione delle scelte egoistiche. Questi interro­gativi sono davanti alle società più ricche (se così possono ancora chiamarsi), e avranno risposta a seconda dell’ottica nella quale ci si porrà.

Cattolici e cristiani di diverse denominazioni, cre­denti e no, sono impegnati per diffondere una vi­sione umanistica e solidale dell’uomo, una con­cezione buona della vita; favorire un impegno e­saltante, che i giovani apprezzano più di altri e tan­ti adulti stanno oggi rivalutando. Non è un impe­gno facile, ma scaturisce da un fuoco che ci è do­nato, da una luce che aiuta a guardare in modo giusto alla società, che spinge a credere che l’uo­mo può crescere solo se ciascuno è di aiuto all’al­tro, se la famiglia riesce a coltivare valori essen­ziali per le nuove generazioni, se la scuola prose­gue nell’opera educativa dei giovani.

A volte, nei momenti più difficili, queste verità ci appaiono chiare e limpide, poi si offuscano in u­na quotidianità che torna ad essere opaca, piega­ta in se stessa. La luce che a Gerusalemme scese sugli Apostoli, e dette avvio all’unificazione del ge­nere umano, oggi chiede di vivere e realizzare quel senso di solidarietà che unisce gli uomini e non può escluderne nessuno, piccolo, povero o emar­ginato che sia.

Carlo Cardia

sabato 26 maggio 2012

Esperienze................

Imparare da Paolo




Mario Follega






La settimana scorsa nella parrocchia di cui sono responsabile c’è stato il ritiro delle prime comunioni. C’erano sessantadue bambini, con i rispettivi genitori, quasi tutti. Dopo aver pregato insieme (ed è già un evento che genitori e figli preghino assieme) abbiamo fatto una caccia al tesoro, a cui hanno partecipato anche i papà e le mamme, piuttosto movimentata (uno si è rotto anche un braccio). Poi siamo andati in chiesa, per la messa di mezzogiorno. Io mi ero preparato una bella omelia… ma, dopo qualche parola, un bambino alza la mano. “Dimmi”, lo esorto. Lui mi pone una domanda sulla malattia. C’era, infatti, un bambino tra noi il cui papà non era presente perché stava molto male. Mi hanno incalzato, uno dopo l’altro, per venti minuti: che cos’è il dolore, che cos’è il paradiso, che cosa si fa in paradiso, ci sono gli insegnanti in paradiso… Domande come solo i bambini sanno fare. Pranziamo insieme, poi ci dividiamo: io resto con i genitori e tengo loro un incontro sul tema “essere padre e madre”, approfittando di una delle rare occasioni in cui posso parlare a tanti papà. Dopo la grande partita finale a pallone, siamo tornati a casa. Distrutti ma contenti, sia noi sacerdoti sia i genitori.
Il giorno dopo era lunedì. E tutti i lunedì noi sacerdoti (siamo in tre ad abitare insieme) abbiamo una giornata di lavoro e di riposo in comune, che costituisce per noi un momento centrale nella settimana. Invece quel giorno, al mattino presto, è accaduto un fatto assolutamente imprevisto: era morto, durante la notte, il papà di quel bambino da cui era nata la domanda durante la messa. Noi tre ci siamo guardati e, dopo un momento di incertezza sul da farsi, ci siamo detti: “Andiamo! Andiamo a casa di quelle persone (il padre era morto in casa), e stiamo con loro”. Naturalmente abbiamo trovato un grande dolore. Abbiamo pregato un po’ insieme, poi mi sono accorto che i figli non c’erano: né quello che aveva partecipato al ritiro, Paolo, di quarta elementare, né quello più piccolo, di seconda. Ho invitato tutti ad uscire dalla stanza e sono rimasto un po’ insieme alla mamma di Paolo. Le ho chiesto dove fossero i bambini. “I bambini li abbiamo mandati da mia sorella, non sanno niente, sono indecisa se dire loro la verità o no”. Le rispondo: “Hanno visto il papà che stava male. Secondo me, per il modo in cui avete vissuto fino a questo momento la malattia, sarebbe opportuno dirglielo”. E lei: “Bene, allora glielo diciamo insieme”. Dopo aver pregato il rosario insieme a lei, torno a casa. Ne parlo con gli altri due preti. Mi tranquillizzano, sarebbero venuti anche loro, anzi avrebbero chiamato anche le catechiste di Paolo.
Siamo andati dai due bambini nel pomeriggio. E ci siamo trovati davanti una scena incredibile. Paolo stava spiegando al fratellino che cos’è il paradiso. Stava ripetendo al fratello ciò che io avevo detto il giorno prima, al ritiro: il papà stava in paradiso, stava con Gesù, stava bene, era in cielo e nel loro cuore. Tutta la mia preoccupazione su come affrontare con quei bambini l’argomento della morte del papà era venuta meno grazie ai diversi modi con cui il Signore si serve di noi, anche nei momenti più impensati. Il giorno prima, rispondendo a quelle domande, durante la messa, mai avrei immaginato che le risposte sarebbero state usate da Paolo, perché il papà sarebbe morto il giorno dopo. Questo ci fa capire che siamo servi del Signore, che la presenza di Cristo passa attraverso di noi, e che ciò che accade è il modo con cui il Signore ci costringe a stare dentro le circostanze e a imparare continuamente da esse.



© Riproduzione riservata.



 

giovedì 24 maggio 2012

Esperienze ...................................................

La sfida esigente dell’educazione: “vivere” con gli alunni la grammatica del cuore

Autore: Paniccia, Antonella  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 24 maggio 2012


In una località della provincia di Frosinone, nostalgica icona di un tempo passato, c’è una piccola scuola primaria: cinque aule, grandi finestre, un largo corridoio e, all’esterno, un cortile.
In classe quarta, ventitré alunni: alcuni tranquilli e sereni, altri vivaci, fragorosi, talvolta un po’ litigiosi. “Una classe terribile!” mi fu sussurrato il 18 novembre 2010, non appena assunsi servizio. Il primo impatto non fu semplice. Indomiti e fieri i nuovi allievi, esuberanti un po’ troppo, rumorosi all’eccesso. In realtà, più che “terribile”, la classe a me appariva “pittoresca”. Un vociare incessante, palline di carta e aeroplanini che volteggiavano in aria, sforbiciatine di capelli al compagno di banco, un taglietto al grembiulino, uno sgambetto di qua, qualche parola fuori posto di là… e poi, banchi spostati, qualche sedia rovesciata, zaini in disordine sul pavimento: per raggiungere la porta, bisognava essere campioni di slalom! Superato un problema di salute e riacquistata una splendida vitalità, io avevo scelto quella sede vagheggiando un ambiente tranquillo… ma non sembrava davvero l’ideale! Ogni volta che tornavo a casa bramavo solo il silenzio: niente televisione, niente telefono, isolamento completo. Mio marito mi osservava preoccupato… era diventato invisibile ai miei occhi! Mi dirigevo verso la mia camera e mi lasciavo scivolare nel letto, esausta: con la testa sotto le coperte mi sentivo al sicuro, come un bambino nel grembo materno. Come sopravvivere a tanto trambusto? Forse… potevo urlare! Ma non era il mio stile pedagogico, e la mia voce, ahimè, non avrebbe superato quella degli alunni. Potevo elargire punizioni! Non era la scelta migliore. Sconsolata, mi resi conto che nessun pedagogista sarebbe potuto venire in mio soccorso. Una simile situazione non era contemplata in nessun manuale didattico. Mi sentivo sfinita. Nello sconforto, illuminante intuizione, cominciai a recitare la preghiera allo Spirito Santo: “…Consolatore perfetto… dolcissimo sollievoNella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. O Luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la Tua forza nulla è nell’uomo”… Senza la Tua forza nulla è nell’uomo… Ripetei più volte nella mia mente questa frase... Era la risposta che cercavo!
In una splendida mattina di fine autunno un tenue sole faceva brillare le fiammeggianti foglie degli alberi, leggermente agitate dal vento. Era uno spettacolo che ti riempiva gli occhi e il cuore di gratitudine ed io giunsi a scuola piena di felicità. Appena entrata in classe, mi feci il segno della croce e rimasi qualche attimo in silenzio mentre chiedevo al Signore di donarmi la Sua forza. Allora vidi quarantasei-occhi-quarantasei che mi scrutavano. Nell’aula era calato un insolito silenzio. L’alunno più ardito mi chiese spiegazioni, ed io gli risposi: “Capita spesso che voi bambini vi comportiate come se non ci fosse l’insegnante. Non prestate ascolto e, in tal modo, non potete comprendere. Come vedete, con le mie sole forze io non posso farcela ad educarvi… Ho bisogno di aiuto. E chi mai potrà darmelo? Così, prego il Signore di ispirarmi le parole giuste per arrivare al vostro cuore ed al vostro intelletto”. Mi accorsi di aver colto davvero nel segno: i bambini, forse sorpresi dalla mia sincerità, erano rimasti seri seri ad ascoltare. Nei giorni successivi cominciarono ad essere in sintonia con me, ed a sorridere quando, con qualche frase spiritosa, cercavo di allentare la fatica della lezione. Si erano fatti più attenti ed io, ormai, conoscevo i loro nomi: così potevo chiamarli, interessarli, coinvolgerli. Avevano acquisito un buon ritmo di lavoro ma non c’era ancora armonia fra loro e, come note di un pianoforte scordato, le incomprensioni e i bisticci spesso li dividevano. Ero certa, però, che un varco per penetrare nel loro animo presto l’avrei trovato. Un giorno, togliendomi dalle mani una pesante cartella, un alunno mi chiese: “Maestra, perché oggi non la diciamo tutti insieme, ad alta voce?” - Diciamo cosa? - risposi. “Ma la preghiera che fai tu a mente la mattina!”. Quella richiesta inattesa mi lasciò dubbiosa. D’improvviso, riaffiorarono nella mia mente gli echi delle falsità che erano state diffuse prima che io arrivassi in quella scuola, quando “una voce mi aveva preceduta seminando angoscia fra i genitori. Ipocritamente, la voce aveva suscitato discordia annunciando: “In questa scuola verrà un’insegnante che in classe fa solo religione!”. Questa l’accusa, questo il motivo per il quale bisognava “stracciarsi le vesti” e protestare… Neanche fosse stata una bestemmia!
Cosa importa, poi, se quel “fa religione” implicava un lavoro intenso, scientifico, uno studio accurato sulla preziosità e sulla difesa della vita, sui valori, sulla famiglia? Iniquamente, veniva occultata ad arte la mia attività di insegnante di italiano, di matematica, di scienze, di informatica, di storia, di geografia; allo stesso modo venivano ignorati i magnifici lavori didattici realizzati in tanti anni di scuola e un curriculum denso di studi giuridici e pedagogici. Nella nuova scuola ero “una che fa solo religione”. E pensare che Gold Indire del MIUR mi aveva egregiamente premiata per il miglior lavoro informatico dell’anno, e l’aveva pubblicato fra le gold practices sulla Banca Dati Nazionale! Sarebbe bastato guardare un attimo indietro: mai mi erano mancati pubblici riconoscimenti. Il 24 maggio 2002, l’avvocato Antonio Buongiovanni, Presidente del Rotary Club, nell’ambito di un convegno di bioetica e di difesa della vita, mi aveva convocata con gli alunni sul palco dell’Aula Pacis dell’Università di Cassino, per presentare il nostro libro “Ho voglia di vivere”. Erano presenti il magistrato on. Carlo Casini, il Prof. Paolo Vigo, Magnifico Rettore dell’Università e S.E. Mons. Bernardo D’Onorio, Abate Ordinario di Montecassino. C’era anche l’onorevole Olimpia Tarzia, Presidente delle Politiche Familiari. Gentilissima, mi inviò una meravigliosa mail ringraziandomi per la significativa testimonianza che il mio impegno, combinato con l’entusiasmo dei bambini della mia classe, aveva prodotto.
E nell’aprile 2008 anche il Cardinale Camillo Ruini, al quale avevo donato il mio libro “La grammatica del cuore”, mi aveva scritto rallegrandosi per il mio lavoro didattico.
Ancora, il 15 luglio 2010, il professore Guido Petter, ordinario nell’Università di Padova, mi scriveva dal Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione: “… Le esprimo la mia ammirazione per la cura che ha posto nel raccogliere e presentare la documentazione relativa ai cinque anni di insegnamento con quel gruppo di bambiniPenso siano stati davvero fortunati ad avere un’insegnante come lei!… Credo che questi Suoi allievi conserveranno per tutta la loro vita il ricordo di una maestra che li ha aiutati a crescere, ha voluto loro bene...
Eppure, nella nuova scuola, aleggiava ancora il soffio di una vile presentazione. Ciò mi spinse a rispondere all’alunno che, se i compagni lo desideravano, potevano recitare a mente una breve preghiera. Così, la mattina mi capitava di vedere i bambini restare qualche attimo in silenzio per pregare. Presto, però, essi tornarono a chiedermi di recitarla tutti insieme. Insistentemente.
La loro richiesta era un desiderio profondo del cuore ed ogni mia perplessità si dissolse dinanzi alla schiettezza e alla semplicità che leggevo nei loro visi. Così decidemmo di iniziare le nostre attività scolastiche con una invocazione: “Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della Tua luce, illumina le nostre menti, riempi i nostri cuori!”. Quindici secondi ogni mattina… e un anno intero di benefici. Conquistata la fiducia dei miei allievi, pian piano vidi il loro atteggiamento mutare. Attraverso l’ascolto e il dialogo, stava maturando in essi un interesse autentico, una nuova sensibilità germogliava; così, mentre facevo lezione di matematica o di scienze, in classe si percepiva una profonda tensione cognitiva. Ero certa che lo Spirito Santo stesse operando invisibili miracoli nei cuori. Una volta, in un’intervista, Claudio Risé ebbe a dichiarare: “Il maestro è una figura dell’anima, è qualcuno a cui tu, allievo, riconosci la capacità di insegnarti qualcosa che hai bisogno di apprendere per vivere come soggetto, e non come schiavo… Il maestro è formatore e suscitatore di libertà… Essere maestri vuol dire mettersi in ascolto del magister interiore: il Padre, che ci cerca, e senza stancarsi parla dentro di noi”.
Con piacevole sorpresa, cominciai a ricevere bigliettini da Alisia, orsetti disegnati da Emanuele, lettere di Alessia. Nei quaderni, spiccavano i cuori di Eleonora, i fiori di Alina, le frasi affettuose di Claudia, di Federica, e di tanti altri. Trascorse così il primo anno con loro: a volte reso difficile da chi, ignobilmente, aveva solcato il terreno con calunnie; altre volte denso di autentiche soddisfazioni. Ora, in quarta, gli alunni sono più maturi, si lasciano interrogare volentieri, e sono impazienti di lasciare una traccia del loro cammino nella scuola primaria. Per questo, vorrebbero che scrivessi un libro insieme a loro. Un alunno, quest’anno, ha voluto imparare tutta l’invocazione allo Spirito Santo: l’ha cercata su internet e ne ha fatto fotocopie per i compagni. Insieme la recitano, meditandola parola per parola. Ne hanno colto il significato e il valore, ne hanno compreso la profondità e sperimentato l’aiuto nelle difficoltà. Hanno pregato per i nonni malati, per un nonno volato in cielo, per la mamma di un’alunna che era in ospedale, per un piccolo amico operato al cuore. Sono incredibili i bambini! Il loro animo è una miniera di sentimenti preziosi. Mi stupiscono tutti i giorni perché ti accorgi che stanno lì ad attenderti, a chiedersi chissà quali belle cose impareranno oggi. Quando spiego, ora c’è un silenzio profondo e ci sono occhi che ti fissano intensamente per capire e accogliere nella mente ogni parola. Mi commuove vederli così: basta solo interessarli un pochino toccando le corde del loro essere, coinvolgendoli emotivamente. Se poi li gratifichi con un complimento, sono capaci di travolgerti con un abbraccio affettuoso. La loro attenzione è sorprendente. E’ un piacere vederli lavorare sereni. E’ una gioia ammirare la diligenza, la precisione e la cura con cui eseguono i compiti: i quaderni raccontano i loro progressi, l’entusiasmo, la passione per le cose che fanno. In cambio desiderano essere ascoltati, elogiati, anche rimproverati se necessario, ma sempre nel rispetto della loro dignità. Hanno bisogno di fiducia e di comprensione, come anche di regole precise, di autorevolezza e di autorità. Mi tornano in mente le parole di S.E. mons. Lorenzo Chiarinelli, vescovo emerito di Viterbo: “L’educazione è una sfida esigente. Una delle tentazioni delle insegnanti è quella di nascondersi dietro la materia che insegnano. Oggi, c’è urgenza di educatori che insegnino a vivere i valori. Nella sfida dell’educazione, al primo posto va collocata la relazione con l’alunno. Ove non si riesca a stabilire il rapporto, il processo educativo è fallito in partenza. Se fondiamo solo sulla disciplina, abbiamo già chiuso. L’educazione autentica è educazione ad esercitare la propria libertà…”. Com’è vero! Senza relazione con l’alunno, si fallisce: non può esserci educazione. L’esperienza didattica con questi ragazzi ne è una conferma.
E se qualche volta può accadere che la loro libertà superi certi limiti, manifesto loro un mio segreto sogno: “Ragazzi, sto pensando di andare in pensione!”. Allora Silvia, con un sorriso incantevole, replica prontamente: “Maestra, ci potrai andare solo quando noi andremo al liceo!” - Come mai? - rispondo preoccupata, dal momento che mi terrorizza l’idea di invecchiare a scuola. “Quando saremo alle medie - risponde - noi ci affacceremo alla finestra della scuola, qui di fronte, e continueremo a vederti e a salutarti!”. Che dire? Mattia mi ha svelato che ha letto il mio libro solo sedici volte e che ogni volta si commuove. Come non ringraziarli per il loro affetto? Gaia, Michela, Manuel, Marika, Tommaso, Francesco (ce ne sono tre), Giuseppe, Alex, Domenico, Filippo, Mattia, Leonardo… ora li ho ricordati tutti! Dolci o irrequieti, silenziosi o loquaci, ubbidienti o impertinenti… Comunque ragazzi attivi e laboriosi. Pochi giorni fa, nel corso della Fiera del Libro 2012, a conclusione di un percorso logico-poetico, hanno presentato “Matematica e Bellezza”: fede e ragione, un binomio sapientemente coniugato da alunni di dieci anni. Questi sono oggi i ragazzi di quarta. Sicuramente vivaci e un po’ chiacchieroni, ma ricchi interiormente, desiderosi di impegnarsi per migliorare, capaci di amore e devozione per la vita. Ragazzi che studiano. Ragazzi che pregano. Nessuno glielo ha chiesto. Era un desiderio accovacciato nel loro cuore chissà da quanto tempo e, prorompente, è affiorato alla prima occasione. E la prima occasione è stata una nuova insegnante. “Una che fa religione”. Insieme a matematica, scienze, tecnologia e informatica! E’ scritto nei salmi: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato mio aiuto. Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezzaAlzano i fiumi la loro voce, alzano i fiumi il loro fragore. Ma più potente delle voci di grandi acque, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore”.
Oggi, 25 maggio, è il giorno del compleanno di mia madre: devo a lei ogni insegnamento germogliato nel mio animo, ogni grammatica del cuore esercitata nella mia vita e tutta la bellezza della matematica che insegno ai miei allievi. A lei, che mi guarda da un cielo di Luce, dono oggi questo pensiero, frutto del suo amore, insieme alla mia gioia e soddisfazione di insegnante

mercoledì 23 maggio 2012

C'è il silenzio ..........

Caro Dio....
scusami se ti disturbo! Con tutte le cose che avrai da fare, perdere tempo a leggere la letterina di una qualunque...scritta su facebook, poi.....
E scusami anche se mi sono presa l'ardire di farlo direttamente ma non ho molto stima dei tuoi "segretari" .....
A proposito....ma come fai a tollerare tutti questi corvi neri che parlano a nome tuo, dicendo cose differenti?
Caro Dio, p...er favore, torna a guardarci...quaggiù non si capisce più niente....
Ci si accapiglia, ci si insulta, ci si odia...
Si compiono gesti terribili...
Dove eri, Dio quando quel papà ha lanciato dalla finestra i suoi due bambini, un maschietto di 4 anni e una fermminuccia di 14 mesi......per poi buttarsi di sotto anche lui?
E quando quell'altro papà ha lanciato il figlioletto nel Tevere?
Dio dove eri quando quelle ragazze entravano a scuola e la mano di un pazzo le ha fatte saltare per aria? e quando quella mamma ha messo dentro la lavatrice la sua piccolina di 10 mesi? oh Dio mio....come puoi permettere che tuoi figli innocenti muoiano così atrocemente...??? tu sai tutto di noi... sai leggere nei nostri cuori.... sei nostro Padre.... ci ami uno ad uno indistintamente.....
Perchè permetti che accadano di queste cose?
Ho provato a chiedere a qualche tuo portaborse.....
Mi hanno parlato di "libero arbitrio"....
Ma quale libero arbitrio può avere un bambino che è gettato dentro la spazzatura o lanciato come fosse un fantoccio o fatto saltare per aria...????
Altri ancora mi hanno detto invece che trattasi di un tuo " disegno"...
Dio.....ma che disegno è questo?
Un acquarello? Un olio? Tempera....carboncino?
Io ti stimo tanto Dio.
E come me, tanta e tanta gente ti vuole bene.
Facile per te amarci dal momento che ci conosci uno ad uno....ma noi non ti conosciamo....non ti sei mai palesato......ci hai mai pensato a questo? Noi ti
amiamo pur non conoscendoti....
E allora, Dio, non abbandonarci sebbene noi con te lo abbiamo fatto...
Non lasciarci nel buio...ne abbiamo tanta paura....
Io credo che mai come in questo momento ci sia bisogno di te...ma se tu latiti, è la fine....
Quanta disperazione Dio mio.....quante lacrime.....quanto dolore....
Why?
Perchè........
Regalaci un arcobaleno, Dio.....un arcobaleno dai mille colori...per tornare a sperare che qualcosa di buono possa ancora accadere...
Perdona, se puoi, le nostre infinite debolezze, ma non lasciarci soli....
Stiamo sprofondando sempre più....se tu non allunghi la mano, finiremo con l'affondare...
Aiutaci ad essere degni di esserti figli.
Ma tu non dimenticarti di esserci Padre.
Visualizza altro

martedì 22 maggio 2012

Lo sport che piace a me 2

 

C'è l'investitura ufficiale del Coni per la portabandiera azzurra:
«Una delle emozioni più grandi». Petrucci: «Campionessa non solo in pedana»

Poteva essere il portabandiera già a Pechino, con tutto quello che aveva vinto. Ha dovuto attendere quattro anni, ma le sono serviti per accrescere la voglia di «rappresentare un Paese che non si arrende e che eccelle in tutto», perché portare il tricolore ai Giochi «è come vincere una medaglia olimpica». Valentina Vezzali di emozioni forti ne ha vissute tante: cinque podi olimpici, con tre titoli individuali vinti di fila e una pioggia di medaglie mondiali che fanno di lei la regina del fioretto, ma sfilare il prossimo 27 luglio nello stadio di Londra «è un onore immenso, corono un sogno» ha detto la schermitrice delle Fiamme Oro, accolta al salone d’onore del Coni dove davanti al consiglio nazionale (presente il capo della Polizia Antonio Manganelli) il presidente Gianni Petrucci ha formalizzato la scelta.

«Non c’è una persona in Italia che possa essere contraria a un portabandiera così - ha detto il capo dello sport - ha vinto tutto, non c’erano dubbi su di lei. È stata una decisione facile, era la favorita e poi quando scelsi Antonio Rossi nel 2008 a lei dissi che lo avrebbe fatto alle Olimpiadi successive. Insomma avevamo questo credito... È un’atleta modello, è un’icona dello sport, anche perchè è una campionessa dentro e fuori il campo gara».

La schermitrice insomma di concorrenza ne aveva poca, anche se nella rosa dei nomi c’erano olimpioniche di pregio come Josefa Idem e Alessandra Sensini. Nessun timore per la Vezzali di stancarsi troppo quella sera (al contrario di quanto aveva detto, con strascico di polemiche, Federica Pellegrini senza che nessuno l’avesse però indicata come possibile portabandiera), lei che davvero il giorno dopo deve salire in pedana e gareggiare. «Ho disputato quattro Olimpiadi, per me sarà un’emozione indescrivibile, si è avverato un sogno e mio padre sarà felice dal cielo - dice la campionessa - Rappresentare il mio Paese in un momento di crisi mi rende ancora più orgogliosa. Spero che tutti, giovani e anziani, possano identificarsi con noi, con lo sport. Il giorno dopo avrò la gara, ma l’attesa allo stadio non sarà lunga. Spero la bandiera non pesi troppo e di non inciampare... Ma la terrò alta».

La cerimonia comincerà alle 20.12 (ora di Londra, le 21.12 in Italia), l’Italia si muoverà dal villaggio alle 20,30 (sfila per 70/a): 1,8km a piedi e l’ingresso nello stadio alle 22,30: Valentina sfila e poi viene riportata al villaggio. Insomma il suo impegno sarà contenuto in 66’, poco più di un’ora. Chiederà consiglio comunque a chi l’ha preceduta da Rossi a Chechi, a Giovanna Trillini, l’ultima donna alfiere ai Giochi estivi nel ’96 ad Atlanta. «Senza di lei non sarei qui - dice la Vezzali - tanti grandi prima di me. Al pensiero mi batte forte il cuore. La mia carriera, come la vita, si è fondata sui principi di impegno, rigore e serietà: portare la bandiera è un ruolo di grande responsabilità in un momento critico, ma sono consapevole di rappresentare un Paese che eccelle in tutto». La Vezzali è la quarta donna italiana alfiere, dopo Cicognani, Simeoni e Trillini. «Sono una donna e una mamma, di un bimbo che a tre anni già cantava l’inno - dice sorridendo - e mi metto tra quelle donne che lavorano e possono godere dei risultati che ottengono». Anche Jacques Rogge, presidente del Cio, faceva il tifo per lei augurandole oltre la bandiera anche l’oro a Londra. «È un bell’auspicio, ognuno gareggia per fare il massimo e vincere. Anche io». Non solo medaglia stavolta per lady fioretto. Finalmente quella bandiera che Giorgio Napolitano le consegnerà il 22 giugno. «Londra è la mia Olimpiade» si congeda la Vezzali. L’aspettava da quattro anni.
 

Lo sport che piace a me

Londra 2012

Valentina Vezzali, 38 anni, ha vinto 5 ori olimpici in carriera

La fiorettista portabandiera dell'Italia nella cerimonia d'apertura delle Olimpiadi.
La Pellegrini: «Scelta giusta»

marco ansaldo
«Sarebbe un onore portare la bandiera anche per 12 ore e gareggiare il giorno dopo». Valentina Vezzali non ha mai fatto mistero che quel ruolo così simbolico, aprire la sfilata degli atleti italiani nella cerimonia di Londra, l’attraeva quanto e forse più dell’oro olimpico che vincerebbe per la quarta volta consecutiva. Ne parlava in confidenza, perchè la propria disponibilità non venisse messa in dubbio, al contrario della Pellegrini («Giusto scegliere la Vezzali» dice Federica dall’Ungheria), e nello stesso tempo non fosse bruciata con qualche dichiarazione che irritasse il Coni. Per dirla tutta, Valentina ha vissuto sulle braci, contrastata tra l’intima convinzione che avrebbero scelto lei per i meriti sportivi e il timore che succedesse un evento capace di mandare tutto a monte.

A novembre si era schiantata in auto contro un albero, rischiando la vita, e l’episodio aveva rafforzato la convinzione che la carriera è appesa a un filo. «Quando ho capito che avrei rivisto le persone che mi sono care, ho pensato agli effetti che la botta poteva avere sulla mia stagione. Così sono tornata ad allenarmi prima di quanto mi avevano consigliato: è stata un’imprudenza ma dovevo sapere che non avevo compromesso l’Olimpiade». Nè il sogno di sempre: portare la bandiera.

La conferma è arrivata mentre la Vezzali volava verso Roma dalla Corea, dove ha partecipato alla prova di Coppa del Mondo. Sarebbe stato anche difficile raggiungerla visto che aveva dimenticato a casa il cellulare, che ieri ha squillato a lungo, immaginiamo con quanta gioia per suo marito Mimmo costretto talvolta a rispondere. Oggi ci sarà l’ufficializzazione nel Consiglio Nazionale del Comitato olimpico alla sua presenza. «La mia gara a Londra è inserita nel primo giorno del calendario e so che potrei arrivarci stanca - ha ripetuto Valentina - ma non è detto che debba restare fino alla fine della cerimonia come fece già Chechi ad Atene. Il mio obiettivo è di riprendere la bandiera tra le mani il giorno dopo sul gradino più alto del podio».

Per chi non si occupa di scherma la Vezzali è un nome e un’icona rafforzati dagli spot pubblicitari e da spettacoli tipo «Ballando sotto le stelle». Tuttavia Valentina è ben altro. Nello sport italiano e nella scherma mondiale non c’è chi ha vinto più di lei, l’albo d’oro è impressionante. Ottenne le prime medaglie olimpiche ad Atlanta, a 22 anni: argento nell’individuale, oro a squadre. Ne conquistò altre cinque nelle edizioni successive. E poi 13 ori ai Mondiali, 10 agli Europei, le 78 vittorie in Coppa del Mondo come non è mai riuscito a nessuno in nessuna disciplina. Un rullo compressore, una donna tanto talentuosa e tigresca in pedana quanto fragile aldifuori, alla ricerca della conferma negli altri del proprio successo: un atteggiamento che nel suo mondo le ha procurato anche antipatie, tanto che nei giorni scorsi la sua concittadina Giovanna Trillini ha eccepito sull’opportunità di farle rappresentare l’Italia a Londra. Sono discorsi di ieri. Oggi si può dire soltanto che la Vezzali (quarta donna azzurra alfiere nei Giochi estivi dopo Cicognani nel ’52, Simeoni nell’84 e Trillini nel ’96) meritava questo onore e che dubitiamo sarà la sua ultima Olimpiade perchè, come la Idem, possiede classe, carattere e voglia di sacrificio per tirare dritto oltre i quarant’anni. E poi è coetanea di De Piero e se non smette lui...

domenica 20 maggio 2012

a proposito di maggio 2

È nostra madre

È nostra madre 
Mi piace volare con la United. Mi piace così tanto, che quasi tutte le volte che vado a casa, faccio scalo all’aeroporto di Dulles, a Washington, dove la United ha un centro di smistamento voli. Durante l’attesa ho il mio rito: vado alla “Firkin and Fox” dove ormai la cameriera mi riconosce, mangio il primo hamburger del viaggio e bevo una buona birra americana, poi riparto verso casa.
La settimana scorsa, ero di nuovo in viaggio. Dopo il rito della burger and beer, mi sono messo nel corridoio a caricare la batteria del portatile alla presa elettrica. Ero in quello stato distratto e sospeso del viaggiatore che attende l’apertura dello scalo, con troppo tempo da ingannare, ma non abbastanza per mettersi a fare qualcosa sul serio. Davanti a me passavano gli altri viaggiatori, qualcuno camminava, qualcuno correva, qualcuno parlava animatamente al cellulare, da destra a sinistra, da sinistra a destra. Si arrivava, si partiva, tutti di fretta. 
Un uomo sulla quarantina arriva di corsa, trascinando un trolley. Vede il mio colletto bianco, trasale, si ferma: “Sei un prete?”. “Sì”, rispondo. “Prete cattolico?”. “Sì, certo” anche se certo non è, in questo paese dalle 12 mila religioni. “Ascolta, mi devi proprio dire, perché Maria? Cosa c’entra Maria?” Mentre lo guardo, stupito e divertito, un pensiero si forma. Sarà un protestante che non ha mai capito perché noi cattolici preghiamo la Madonna? Appena un’ora in questo Paese, e il mio cuore di missionario si gonfia: già gli infedeli si convertono attraverso di me...! “Mi sembra che vai di fretta: quanto tempo hai?” gli chiedo. “Effettivamente, ho il volo fra pochi minuti...” “Allora sarò breve. She’s our mother, è nostra madre. Buon viaggio!”. 
Mi è uscita quella frase senza pensarci. Lui corre via, e mi lascia con un nuovo pensiero a riempire il tempo dell’attesa. Maria, presenza materna in mezzo alle nostre fatiche, sostegno della nostra fragilità. Giovanni Paolo II scriveva in una delle sue ultime lettere alla Chiesa, la Rosarium Virginis Mariae, che dire il rosario è come tenere la mano della Madonna. È un’immagine dolce. Sarebbe dolciastra, se non fosse che a volte abbiamo veramente bisogno di tenere la mano della mamma.
Allora ringrazio, in questo maggio di fiori e di crisi, che tu ci sia, Maria. Mentre puliamo i piatti, mentre compiliamo i bilanci, mentre siamo in coda nel traffico, mentre facciamo la fila alla posta, tienici la mano. Di giorno e di notte, a casa e al lavoro, sul divano la domenica pomeriggio, e di corsa in aeroporto, stai con noi. Madonna del buon viaggio, aprici la strada. 

leggere per riflettere

Il silenzio nutre la parola e il legame

 

Oggi è la giornata mondiale delle comunicazioni sociali, per la quale Benedetto XVI ha scelto il tema 'controintuitivo' del silenzio.

Giusto parlare di etica della comunicazione, giusto garantire l’alfabetizzazione ai linguaggi e l’accesso alle tecnologie, giusto curare la forma e i contenuti della comunicazione. Ma senza il respiro del silenzio la comunicazione rischia di diventare 'rumore' e di capovolgersi nel suo contrario: l’insignificanza da un lato e la solitudine, o, peggio, l’isolamento, dall’altro. Il 'tutto pieno' è la caratteristica dell’idolo: tutto presente, saturo, capace di attirare in modo totalizzante; senza 'altro', senza 'oltre'. La comunicazione tutta piena, la comunicazione come ossessione si rovescia nel suo contrario: il rumore che non significa più nulla, e diventa un idolo che ci seduce e ci incatena a sé, in un gioco perverso dove si alternano un consumo massiccio e una produzione compulsiva di messaggi. Dove, con buona pace dell’interattività, si diventa 'emittenti' incapaci di ascoltare. Alla fine, autistici.

La parola che significa e che costruisce relazione è invece una parola-simbolo, una parola aperta, una parola incompleta; una parola, quindi, 'striata' di silenzio. Il silenzio è la breccia che apre la parola all’ascolto di ciò che essa non può contenere, e che quindi le consente di accogliere l’altro, di ospitare 'altro'. Due spunti possono aiutare a recuperare il significato profondo del silenzio. Uno tratto dall’esperienza di tutti, l’altro dalla radice etimologica del termine, che ci riporta alla ricchezza dei suoi significati originari. L’esperienza è quella della forma che assumono i legami più intimi, più profondi, più duraturi, più fondamentali per la nostra identità e per le dinamiche di riconoscimento: la tenerezza, l’affetto, il legame di cura, la sollecitudine, il conforto, il sostegno passano molto di più dalla presenza attenta, dalla vicinanza silenziosa, dal linguaggio tacito del corpo che dalla verbalizzazione. La mamma che allatta il suo bambino non ha bisogno di parlargli (Cicerone scriveva «nutrix educat»: dare, con amore, quello di cui l’altro ha bisogno per crescere è il gesto educativo per eccellenza, che non ha bisogno di parole). Le più belle dichiarazioni d’amore non sono quelle fatte con le parole (che ormai si trovano pronte per ogni circostanza in rete) ma con gli sguardi, i gesti, la presenza attenta, la capacità di fare un passo indietro per lasciar essere l’altro.

Chi assiste una persona cara in fin di vita non ha bisogno di parlare del passato, di un presente che è doloroso o di un futuro che non si conosce. Basta esserci, e possibilmente sorridere, o anche piangere quando è il momento. La testimonianza non ha bisogno di discorsi, ma di azioni silenziose e intense. Il perdono, che è ciò che ci fa rinascere e ci libera dalla pesante e mortifera zavorra dei nostri errori, è detto dalla vita, dal modo in cui veniamo ri-accolti, e non dalle parole, sempre facili da pronunciare e molto meno da mantenere. Il legame profondo si esprime soprattutto nell’apertura silenziosa all’altro. Dove il silenzio è prima di tutto il silenzio dell’io, che rinuncia al suo protagonismo e all’espressione di sé, e si apre, e si offre, all’altro. Gli fa spazio. Da questa 'postura' possono scaturire parole dense di significato e capaci di comunicare oltre se stesse. Capaci di far essere e far durare il legame. Difficilmente accade l’inverso. Il silenzio, dunque, è la condizione del significato (come apertura, ascolto dell’essere) e anche il 'collante' del legame (come apertura all’altro). Questo nesso non immediato con la dimensione del legame è ben presente nell’etimologia del termine: che da un lato ha una radice onomatopeica (ssss è il suono che facciamo per creare silenzio; che 'significa' con chiarezza, senza bisogno di parole) e dall’altro una radice indoeuropea, si-, che indica, appunto, il legame.

Forse non è una caso che la 'società della comunicazione' sia anche una società iperindividualistica, dove il tessuto sociale è sempre più fragile, con le conseguenze e i costi dei quali cominciamo forse a renderci conto. E che sia anche fortemente secolarizzata: senza il silenzio mancano le condizioni per ascoltare non solo l’altro vicino, ma anche l’Altro che ci invita con discrezione, perché ci ha creati liberi. Nel rumore questo invito non si può sentire. Nessuno vuole perorare la causa di una 'società del silenzio', ovviamente. Ma è solo ripartendo dal silenzio e 'incorporandolo' che la comunicazione potrà veramente diventare, da emittenza e trasmissione, condivisione e comunione. E rigenerare, insieme, i significati e i legami che ci rendono umani.

Chiara Giaccardi

sabato 19 maggio 2012

le stagioni della fede

Maggio con Maria
donna della Pasqua

Se si guarda al ciclo delle stagioni, è il mese della primavera che avanza. Invece, per la liturgia, è il «tempo dell’alleluia» e dello svelarsi del mistero di Cristo alla luce della Risurrezione, ma anche il tempo dell’attesa dello Spirito Santo che scende sulla Chiesa nascente a Pentecoste. Due contesti, quello «naturale» e quello liturgico, che si intonano bene con la tradizione di dedicare il mese di maggio a Maria.

La donna, che nelle litanie lauretane è definita «rosa mistica» e che Benedetto XVI ha chiamato «il fiore più bello sbocciato dalla creazione, è al centro di queste settimane rigogliose che la pietà popolare alimenta da secoli. «Il popolo cristiano – spiega padre Salvatore Perrella, religioso dell’Ordine dei Servi di Maria e preside della Pontificia Facoltà teologica Marianum – è oggi toccato dalla fluidità delle relazioni. Però continua a intuire che Maria è la catena dolce che ci riannoda a Dio».

Le radici del culto mariano che segna questo mese sono profonde. «Da sempre la Chiesa ha voluto consacrare alcuni momenti dell’anno a Maria – riferisce il religioso –. In Oriente il mese di agosto è dedicato alla Dormitio. Nella Chiesa copta il tempo del Natale è anche quello della Vergine che viene onorata come madre del Salvatore». In Occidente sarà il Medio Evo a far fiorire una devozione senza tramonto. «Ne è la testimonianza una composizione alla Madonna del re e poeta Alfonso X di Castiglia – aggiunge il preside del Marianum –. Poi nel 1549 un monaco benedettino pubblica il primo libro sul maggio mariano. Ma saranno soprattutto i gesuiti ad ampliare questa tradizione che fra il Settecento e l’Ottocento passa dalle case alle chiese. Così in questo mese la Vergine viene presentata come summa delle virtù cristiane, come colei che intercede presso il Figlio e come protettrice della Chiesa».

Con il Concilio Vaticano II la pratica mariana si sintonizza con il tempo di Pasqua. «Accade talvolta che la presenza di Maria nel mistero di Cristo sia messa in relazione soltanto con l’Incarnazione – sottolinea padre Perrella –. Invece la Madonna è anche donna della Pasqua. E non soltanto sotto la croce. Perciò la Vergine va venerata come icona della gioia in quanto è la prima a esultare per la Risurrezione».

I giorni di maggio sono scanditi dalla recita del Rosario che il Papa considera una «scuola di contemplazione e silenzio». «L’intuizione di Benedetto XVI – dichiara il preside del Marianum – può essere una risposta a chi ritiene questa preghiera una meccanica recitazione di formule. Nulla di più errato. Il Rosario è meditazione dei misteri di Cristo a cui Maria è stata associata e, con la corona fra le mani, invita a riflettere sulla vita del Signore. Per questo non solo è preghiera a Maria, ma con il cuore di Maria».

La vicinanza alla Madonna si esprime anche con segni esteriori, a cominciare dai fiori che decorano gli altari e che sono richiamo alla bellezza. «Quella di Maria è una bellezza di redenzione – afferma il religioso –. Dio ha rivisto nella Vergine l’uomo appena creato che era bello e buono. Si legge nel libro dei Salmi: "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia". Ecco, abbiamo bisogno della bellezza autentica che è quella del Crocifisso, del Samaritano, del Risorto. Ed è questo che Maria insegna con il suo magistero quotidiano».

Il mese di maggio si conclude con la festa liturgica che ricorda il secondo «mistero gaudioso»: la visita della Madonna a Elisabetta. «Se Maria è la prima evangelizzata in quanto porta nel grembo il Verbo che si farà carne, al tempo stesso diventa la prima evangelizzatrice quando si reca dalla cugina. Così la Madre di Dio visita il popolo cristiano e ricorda l’essenziale della fede che consiste nel "fare quello che lui vi dirà", come indica ai servi di Cana». Fulcro dell’episodio della Visitazione è il <+corsivo>Magnificat<+tondo>. «Con questo inno – conclude padre Perrella – Maria celebra l’amore che il Signore ha per l’umanità, in particolare per gli ultimi. Del resto è lei la prima beneficata da questa opzione di Dio. Ecco perché il Magnificat è un canto che sconvolge: nelle parole accolte da Elisabetta, la Madonna annuncia che sarà la forza dell’umiltà a sconfiggere il male. E ci esorta a essere collaboratori di questa rivoluzione della carità che Cristo ci consegna».

Giacomo Gambassi

venerdì 18 maggio 2012

A prosito di maggio

Come si fa a studiare in maggio?

Valerio Capasa


venerdì 18 maggio 2012

Quando torna maggio, la voglia di studiare diminuisce. E nelle aule scolastiche, ma anche fuori, si aggirano parole stanche, pesantezze accumulate, fretta di smettere. C’è il mare che chiama, e non siamo certo tutti Leopardi: si sa, quel musone buttò a mare la sua adolescenza con «sette anni di studio matto e disperatissimo» (che poi, permettetemi: che male c’è, per chi nasce con un talento poetico, a dedicare tutte le sue giornate a quel talento? Qualcuno si fa forse problema se Messi ha dedicato la sua intera adolescenza a un pallone?). Comunque, per chi non è nato col talento dello studio, a maggio c’è il mondo che chiama come non mai, e lo studio può attendere: rimandato a settembre.
A me sembra, tuttavia, che esista una prospettiva di studio e di vita molto più interessante, che maggio stesso ci invita a scoprire urgentemente. Lasciamo che a proporcela sia proprio Leopardi. Ricordate A Silvia? «Era il maggio odoroso», appunto, e «le vie dintorno» risuonavano del «canto» di Silvia, della sua voce «assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi». E cosa faceva l’adolescente Leopardi? Smetteva di studiare e si affacciava al balcone per sentirla cantare:

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Guardava il mare, e le solite strade non erano più solite: erano «dorate» per il sole di maggio e per la voce di Silvia. Come può una «lingua mortal» riuscire a dire i «pensieri» e le «speranze» che succedevano nel cuore di quel ragazzo innamorato?
In questi versi si nasconde, a mio parere, il segreto dello studio. Cosa serve, per esempio, per comprendere A Silvia? Fare un’analisi del testo oppure affacciarsi al balcone, e magari scendere per strada, passando sotto la finestra della ragazza di cui siamo innamorati? Come ci si potrebbe accostare ai versi leopardiani se ci mancasse l’esperienza di un amore di maggio, che ci riempie il cuore e le strade di promessa?
Continuare a pensare che la vita e i libri non c’entrano niente, che serve un ultimo sforzo e poi saremo liberi, è il modo subdolo per non essere mai noi stessi in quello che facciamo, per non porgere gli orecchi al suono né dei poeti che ci tocca studiare né soprattutto della nostra Silvia. Urge invece paragonare la propria vita con le parole che leggiamo, partendo dall’ipotesi che fra quei due mondi possa aprirsi un dialogo. Del resto, solo questa prospettiva non tradisce l’origine di A Silvia, che non è nata fra quattro mura ma affacciandosi alla finestra, non fu scritta da un uomo chino sui libri ma da uno che smise di studiare. 
Paradossalmente, perciò, in questo periodo stringere i denti e non andarsene in giro per concentrarsi sullo studio non farebbe che alimentare il dualismo. Si tratta, invece, di andare in giro davvero, di affacciarsi alla finestra davvero, di amare davvero. Solo chi si alza dalla sedia può sentire Leopardi come un amico, da inondare di domande: come mai per me le strade sono solo strade e per te invece sono piene di Silvia? come mai per me maggio è solo l’ultimo spazio di apnea prima delle vacanze e per te la promessa della natura? Proviamo, una sera di maggio, a guardare il cielo stellato: non traboccheranno dal nostro cuore le stesse domande del Pastore errante dell’Asia?
Luigi Giussani descriveva lo studio con un’immagine molto leopardiana: «Studere: quando un ragazzo pensa alla sua ragazza, oppure quando un ragazzo dagli spalti della scuola tira il collo per vedere la sua ragazza che è entrata in aula, distraendosi dal professore perché ogni tanto la guarda, questo si potrebbe tradurre in latino con la parola studere: è l’essere attirato dall’essere».
«Attirato dall’essere»: studiare consiste in questa attrazione, come una ricerca su un vocabolario di latino svelerebbe con estrema sorpresa. Il sostantivo studium significa infatti «desiderio, ardore, passione, amore, cura, zelo, attaccamento, occupazione prediletta, inclinazione, gusto»: come siamo arrivati a sentire che lo studio coincide esattamente con il contrario di queste parole? Oserei dire: studiando troppo, affacciandoci poco, tradendo insomma il metodo di Leopardi.
«Noi studiamo troppo, per poetare». Nel saggio sul fanciullino, Pascoli è stato chiarissimo: «mettiamo lo studio ove non c’entra», perché «lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima».
È l’esperienza semplice della poesia, che Ovidio, all’inizio del secondo libro dei suoi Amores, coglieva splendidamente: «via da qui, state lontano, voi moralisti! / Non siete la platea adatta per ritmi dolci. / Mi legga una ragazza appassionata (“non frigida virgo”) che desidera il suo fidanzato, / e l’adolescente grezzo (“rudis puer”) toccato dall’amore che non conosce (“ignoto tactus amore”); / e uno di questi ragazzi, ferito anche lui dall’arco che ha ferito me, / apprenda i segni rivelatori della sua fiamma, / e dica, dopo lungo stupore: “informato da quale spia / questo poeta ha messo nei versi suoi i fatti miei?”».
Dai versi dei grandi poeti grondano i «casus meos», e infatti non c’è bisogno di nessuna precondizione perché ciascuno possa scoprire che «le sudate carte» sono anche «studi leggiadri»: chi ama i luoghi reali, così belli in questo mese, non si perde nei luoghi comuni, e ama la poesia chi ama la vita, chi sorprende quell’attrazione per l’essere che gli passa dentro il cuore e che «lingua mortal non dice».


© Riproduzione riservata.


giovedì 17 maggio 2012

si legge di allergia al nichel


ALLERGIA NICHEL

Il nichel è considerato l’agente allergizzante maggiormente responsabile delle Dermatiti Allergiche da Contatto di tipo professionale (metalmeccanici, parrucchieri, odontotecnici, cassieri, sarti, lavoratori del calzaturiero, ecc) o extra professionale.
Si tratta di una patologia che colpisce soprattutto giovani donne con una frequenza del 10% e che può interessare sedi cutanee diverse.
Molti, infatti, sono gli oggetti di uso comune che contengono nichel: accessori metallici dell’abbigliamento, montature metalliche degli occhiali, bigiotteria, monete, chiavi, stoviglie, cosmetici, ecc.
D’altro canto, le sedi cutanee maggiormente interessate dalla Dermatite da contatto hanno subito delle modificazioni nel corso degli anni di pari passo coi mutamenti avvenuti nel “costume”.
Negli anni ’30 la zona più colpita era il terzo superiore della coscia, in relazione all’uso del reggicalze.
Negli anni ’70 i bottoni dei blue-jeans erano responsabili del 40% delle dermatiti nelle giovani donne, con tipica localizzazione nella regione inferiore dell’addome.
Successivamente, col diffondersi della moda di forare i lobi delle orecchie, i casi di dermatite da contatto da nichel sono aumentati. Oltre alle dermatiti in sedi tipiche, sono stati descritti episodi di edema delle palpebre in seguito all’uso di eye-liner e di soluzioni per la pulizia delle lenti a contatto, e dermatiti delle dita delle mani in musicisti che utilizzano strumenti a corda. L’ipersensibilità al nichel può essere, inoltre, la causa del rigetto di protesi valvolari cardiache, di dispositivi intrauterini e di apparati ortopedici (placche, viti ed artroprotesi).
Ma il nichel può anche essere responsabile di sintomi respiratori e/o di manifestazioni sistemiche, come orticarie con prurito generalizzato, angioedemi, eritemi diffusi e disturbi focali anche particolarmente significativi a carico dell’apparato gastroenterico (gastriti e coliti croniche).
Questo perché il Nichel è metallo ubiquitario, contenuto, oltreché in numerosi oggetti, anche in diversi cibi che fanno parte della nostra dieta quotidiana.
Il nichel è un metallo presente in molti oggetti di uso comune e per questo è difficile evitarne il contatto nella vita quotidiana. Viene ceduto in minima quantità dalle leghe metalliche, ma risulta poco tossico in quanto scarsamente assorbito dall'organismo.
Tuttavia può essere talvolta responsabile di alcune patologie, prevalentemente da contatto. Inoltre può essere presente come contaminante nelle acque di acquedotto e benché questa contaminazione sia pressoché irrilevante da un punto di vista tossicologico, può però arrecare qualche disturbo alle persone particolarmente sensibili alla sostanza.
La restrizione del contatto con gli oggetti che contengono nichel va effettuata su richiesta specifica del medico, e solo in determinati casi di allergia da contatto vera, non necessariamente in tutte le forme legate a reazione ad alimenti.
Per quanto riguarda il possibile contatto diretto con il solfato di nichel, gli oggetti e le sostanze che lo possono contenere e che quindi rappresentano un rischio sono le seguenti:
• Oggetti di metallo e leghe: bigiotteria, occhiali, orologi, bottoni metallici, chiusure lampo, fermagli di biancheria intima, chiavi, accendini, targhette di identificazione, manici di ombrelli, maniglie delle porte, monete (gli euro ne contengono più delle lire, ma molto meno che una comune brioche), oggetti cromati...
• Utensili di uso domestico e professionale: utensili da cucina, lavelli metallici, aghi, forbici, ditali, fermacarte, sedie di metallo, aghi per elettro depilazione, agopuntura, mesoterapia...
• Detersivi, molti cosmetici e tinture per capelli
• Oro bianco, argento e amalgama: per esempio alcune sostanze usate per lavori odontoiatrici.
• Inchiostri e liquidi per fotocopiatrici
• Colori per vetro e ceramiche, coloranti per cuoio e pelli: quindi anche i capi colorati in pelle o cuoio, le stoviglie di terracotta e di porcellana.
• Coloranti per tessuti e carta da parati, tinture per capelli: anche i liquidi per le permanenti, pur non contenendo nichel, possono provocarne il rilascio da oggetti metallici quali fermagli e bigodini.
• Protesi: comprese in alcuni casi le protesi dentali, oltre a quelle ortopediche e alle valvole cardiache. Sono possibili sensibilizzazioni al nichel dovute alla lavorazione di batterie alcaline, di oggetti di ottone e zinco lucidati in nero, ceramiche, materiale elettrico, smalto (verde: ossido di nichel), additivi per carburanti, insetticidi, reagenti e catalizzatori per materiale plastico, leghe e rivestimenti di nichel, nuclei magnetici, indurenti dei grassi, placcature mediante bagno galvanico o con ottone. Le soluzioni industriali contenenti nichel penetrano i comuni guanti di gomma ed è quindi consigliato l'uso di guanti pesanti di vinile da lavoro.

ALIMENTI
La possibilità che i sali di nichel siano introdotti con l'alimentazione è un problema rilevante. Recenti lavori scientifici hanno evidenziato con precisione che la sintomatologia tipica dell'allergia al solfato di nichel, ritenuta prima solo da contatto, è dovuta in realtà anche all'introduzione alimentare di sostanze che lo contengano.

Alimenti proibiti:
Cibi in scatola, aringhe, ostriche, fagioli, asparagi, cipolle, spinaci, pomodori, piselli, funghi, granturco, farina di grano intero, pere sia fresche che cotte, rabarbaro, the, cacao, cioccolato, lievito in polvere, noccioline.
• Spinaci, funghi, kiwi, cacao, pomodoro, pera, asparagi, rabarbaro
• Uva passa, prugne (segnalazione clinica ripetuta, Dott. Alberto Bollo, centro DRIA, Genova)
• Avena(risulta uno dei cereali che ne contiene in misura maggiore)
• Lenticchie: sono le leguminose con il massimo contenuto di nichel. I fagioli e i piselli (in ordine decrescente) ne contengono meno. Di solito non togliamo questi ultimi dalla dieta a meno che non siano segnalate reazioni individuali.
• Mais, cipolla: per cipolla e mais, è da escludere l'uso abbondante, mentre la quantità di cipolla necessaria per un soffritto, i pochi chicchi di mais che possono dar colore a un'insalata o una manciata di cornflakes di tanto in tanto nel latte della prima colazione sono ammessi dalla dieta. Una polenta, una zuppa di cipolle, mezzo sacchetto di cornflakes o di pop corn vanno ovviamente considerati come ‘uso abbondante’ di questi alimenti.
• Aringhe, ostriche, cibi in scatola
• Margarine e grassi vegetali (idrogenati o non): alla loro preparazione concorrono diversi oli, e molto spesso quelli di mais, di soia e di arachide. Vengono usati a livello industriale soprattutto come ‘amalgamanti’, e la loro presenza nell'alimentazione comune è veramente ragguardevole.

Alimenti di cui è consentito un consumo limitato:
Formaggi fermentati, bevande fermentate, crauti, insaccati, di maiale, e di bue, fegato di maiale, tonno, bottarga ed alici in scatola, carni, pesce surgelato e fresco, crostacei e frutti di mare.

Alimenti permessi:
Pollame o qualsiasi tipo di carne, pesce (ad esclusione delle aringhe), uova, latte, burro, margarina, formaggi, una patata (grandezza media) al dì. Sono permesse piccole quantità di: cavolfiore, cavolo, lattuga, carote, riso raffinato, farina (non di grano tenero), marmellata, vino, birra, caffè, frutta fresca (escluse le pere), Farro e Kamut.

• Esempi comuni di prodotti che ne contengono e vanno quindi eliminati o ruotati nella dieta sono tutti i prodotti in sacchetto (cracker, biscotti, grissini, patatine fritte, arachidi e noccioline tostate), i pani speciali (come quelli conditi, all'olio, numerosi pani integrali, le fette da toast, le focacce, i crostini), cioccolato, gelati, caramelle, tutta la pasticceria e la biscotteria industriale (merendine, biscotti, brioche, pasticcini e tutti gli snack), i dadi da brodo (anche quelli solo vegetali), alcune marmellate, il fast food, i cibi fritti, la frutta secca e i semi oleosi.

Note
• Per quanto riguarda l'eventuale presenza di solfato di nichel nell'acqua di acquedotto per uso alimentare, le indicazioni sulla sua eventuale restrizione (rarissima e limitata a casi di estrema gravità), che comporta l'uso di acqua minerale anche per la preparazione e la cottura di cibi, dovranno essere seguite solo su specifica indicazione del medico.
• In alcuni casi, quando la sensibilità al nichel è molto elevata, potrebbe essere richiesta dal medico un'assunzione controllata anche di: farina di frumento, lievito, tè, eventualmente riso integrale e frutta secca.

Gli utensili di metallo possono essere sostituiti con oggetti analoghi in plastica, vetro o acciaio inox. Anche le pentole smaltate e quelle di teflon possono essere usate liberamente (peraltro vale la pena di ricordare che la reattività alimentare ‘alla brioche’ è più intensa in genere rispetto a quella legata agli utensili di metallo).
Riguardo alla dieta, una buona alternativa ai prodotti industriali sono i cibi preparati in casa. Inoltre si darà la preferenza al pane comune. Al posto del dado da brodo, si può fare un maggiore uso di erbe aromatiche per insaporire le pietanze o di vero brodo di pollo o di carne.
Fra gli alimenti di origine animale il maggior contenente di Nichel è l’uovo di gallina 0,3 mg/kg.
Il nichel, inoltre, è presente nelle scatole metalliche contenenti alimenti i quali vengono, così, contaminati.
E’ da tener presente, infine, che il metallo si può liberare, durante i processi di cottura, dai recipienti metallici utilizzati, soprattutto in presenza di sostanze acide (per es: l’acido ossalico contenuto nei pomodori).
Per quanto fin qui esposto appare, dunque, evidente come l’assunzione di nichel coi cibi possa essere in grado, così come ampiamente dimostrato, di condizionare l’andamento delle lesioni da contatto (determinandone, ad esempio, improvvise e apparentemente incomprensibili riacutizzazione) e di provocare inoltre reazioni diffuse più particolarmente marcate a livello intestinale dove il nichel, assunto per via alimentare, può nel tempo ingenerare vere e proprie reazioni infiammatorie croniche con conseguenti nausea, “bruciori di stomaco”, meteorismo, dolori addominali, diarrea o stitichezza.
L’assunzione giornaliera di nichel varia da Paese a Paese in relazione alla concentrazione del metallo nel sottosuolo e nell’acqua potabile e con le abitudini alimentari; negli USA è di circa 300-600 microgrammi al giorno, mentre in Europa è di circa 200 microgrammi al giorno.
I meccanismi patogenetici alla base di tali manifestazioni sono ancora sconosciuti: oltre all’intervento di specifiche reazioni immunologiche e pseudo-allergiche, è stato anche ipotizzata l’azione di meccanismi tossici.
Nella diagnosi di ipersensibilità al nichel ci s’avvale dei test epicutanei a tipo “patch” ed, eventualmente, del test di provocazione orale col nichel.
Nei pazienti con manifestazioni cutanee diffuse si ottiene certamente un buon controllo della sintomatologia utilizzando un regime alimentare privo di cibi contenenti nichel.

Ecco un elenco di alcuni alimenti contenenti nichel di cui si conosce la quantità di Nichel contenuta:
• Cacao 10 mg/kg
• Liquirizia 4,4 mg/kg
• Noccioline 2,9 mg/kg
• Lenticchie 1,9 mg/kg
• Nocciole 1,5 mg/kg
• Fagioli 1,4 mg/kg
• Ostriche 0,6 mg/kg
• Farina di Mais 0,40 mg /kg
• Asparagi 0,40 mg/kg
• Lattuga 0,30 mg/kg
• Piselli 0,30 mg/kg
• Margarina 0,20-4,00 mg/kg
• Farina di grano 0,20 mg/kg
• Spinaci 0,20 mg/kg
• Pere 0,10 mg/kg
• Carote 0,10 mg/kg
• Uva 0,10 mg/kg
• Pomodori 0,09 mg/kg
• Carote 0,04 mg/kg
• The 0,03-7,30 mg/kg
• Cavoli 0,03-1,00 mg/kg
• Broccoli 0,03 mg/kg
• Funghi 0,02 mg/kg
• Vino 0,01 mg/kg



TRATTAMENTI:
Nel trattamento dell' allergia Nichel è indispensabili utilizzare per la detersione del proprio corpo - detergenti e cosmetici che non contengono Nichel;
- depurare e disintossicare a cicli l'organismo.
- aggiungere nella propria dieta Farro, Kamut.


All'interno della nostra Erboristeria troverete una vasta scelta di tali prodotti.

DIETA DEPURATIVA/DISINTOSSICANTE
Appena alzata bere un bicchiere d'acqua tiepida!

Colazione:
(una tra le seguenti cose)
- latte di riso o di soia
- frappè con latte di riso
- budino con latte di riso o di soia
- Una fettina di torta fatta con farina di riso/kamut/farro (senza uova,latte,lievito)
- Cialde di riso/kamut/farro + composta di frutta senza zucchero
- tè verde senza zucchero ma con miele
- tè bancha
- frutta cotta

A metà mattinata:
(una tra le seguenti cose)
- biscotti
- brioche
- frutta
- budino con latte di riso o di soia
Pranzo:
(una tra le seguenti cose a giorni alterni)
- pasta di farro bianca

- pasta di riso
- pasta di kamut
- proteine* + verdure**
- frutta +verdure**

A metà pomeriggio:
- frutta

Cena:
(una tra le seguenti cose)
- proteine* + verdure**


* proteine: carne bianca, pesce o carne rossa
(la carne rossa solo una volta a settimana)

** verdure: rucola, valeriana, radicchio, finocchio, porcellana, carciofi

- Bere acqua a basso contenuto di sodio
- Aiutare la depurazione dell'organismo con un depurativo a base di Tarassaco, facilmente reperibile in Erboristeria, da bere diluito in acqua, durante il corso della giornata!!!
— con Peppe Ramingo

martedì 15 maggio 2012

Tutto sulla mamma-martedì

Viva la mamma! Voi come la festeggiate?
Redazione online



Se ancora non avete fatto gli auguri alla vostra mamma siete ancora in tempo per rimediare. Già, perché oggi è proprio la Festa della mamma, della persona che da quando siete nati non vi ha mai lasciati, che vi è sempre stata accanto facendo non si sa quanti sacrifici pur di vedere spuntare il sorriso sulle vostre facce. Quindi, cor...rete da lei e schioccatele un bel bacio sulla guancia!

AMICA/NEMICA DI SEMPRE! - Alzi la mano chi non si è mai scontrato con la mamma! Infatti, quante volte avete pensato che vi stesse troppo con il fiato sul collo, che non vi capisse e che fosse troppo lontana da voi? In realtà, le mamme vi sono sempre accanto e lo sapete fin troppo bene, anche quando fate finta di niente. Ma adesso, è arrivato il momento di festeggiarle per ringraziarle di tutto quello che fanno per voi ogni giorno. Come? Vi diamo noi qualche consiglio!

COSA REGALARLE? - Moltissimi ragazzi quando arriva la Festa della mamma entrano nel panico non sapendo bene cosa regalarle. C’è chi cerca il regalo perfetto, quella cosa davvero originale che la mamma non si aspetterebbe mai di ricevere, e chi, più tradizionalista, punta sul sicuro comprandole un bel mazzo di fiori. In realtà, forse molti non sanno che alla maggior parte delle mamme basterebbe passare solamente un po’ di tempo insieme a voi, magari insieme ad un "ti voglio bene" detto col cuore.

UN’IDEA? PASSATE DEL TEMPO INSIEME! - Si, sappiamo tutti quanto voi ragazzi siate super impegnati tra studio, sport e tante altre attività che non vi permettono di passare molto tempo con la mamma. Ma perché, allora, non regalarle un blocchetto di “assegni” creato da voi dove, anzichè inserire il valore del denaro, scrivete le attività da fare insieme? Insomma, del tempo di qualità da spendere in comode rate mensili! Pensate: lei vorrà andare a fare shopping con voi? Tack, le basterà staccare il suo assegno con su scritto “shopping insieme” e consegnarvelo! E questo vale anche per le coccole o per una giornata di relax. Insomma, sarete voi a scegliere cosa fare insieme, e lei a decidere quando.

FESTA OGNI GIORNO! - Ovviamente, è inutile ricordarvi che avere una persona che si preoccupa sempre di voi e chi vi ama così incondizionatamente è una cosa bellissima. Quindi, ogni volta che state per risponderle male, pensate a come spendere diversamente e in maniera migliore il tempo che invece passereste litigando. Anche perché, la mamma sarebbe bello festeggiarla tutti i giorni!

Fine campionato di calcio

L'ultimo stadio

​Se a qualcuno ancora interessa il calcio giocato, il profumo dell’erba di un campo (anche quello sintetico odora di cocco), i colori delle bandiere di una curva o la gioia di un bambino che in tribuna mangia distrattamente un gelato mentre Del Piero segna il suo ultimo gol con la maglia della Juventus, allora lo informiamo che siamo arrivati all’ultima giornata del campionato di Serie A. Una volta, questo era un po’ come l’ultimo giorno di scuola: al triplice fischio finale della stagione ecco che arrivavano puntuali le pagelle dei club promossi e bocciati, con i vincitori, e i vinti condannati a inchinarsi dinanzi a una sola squadra: quella dei campioni d’Italia.

Questo accadeva tanto tempo fa, molto prima del calciomercato - alias, mercato delle vacche -  aperto tutto l’anno, delle ferali dirette no-stop in pay-tv, di Calciopoli e Scommessopoli. Per colpa di quest’ultimo, il calcio-scommesse, il campionato non si ferma, ma fa solo una forzata scelta di campo: passa dal rettangolo di gioco alle aule dei tribunali, con tanti sospettati in attesa di giudizio. Il Palazzo di giustizia del pallone si affida a Palazzi, Stefano, il procuratore federale che «per ora» ha chiamato a processo 52 calciatori (61 tesserati) e 22 società, 3 di serie A, 10 di Serie B e le altre di Lega Pro. «Ma la Serie A ne uscirà indenne», affermano sicuri gli innocentisti - più o meno direttamente interessati - davanti all’ennesima puntata del calcio marcio.

Dal Palazzo di Palazzi però aspettano da un momento all’altro faldoni dalle Procure di Cremona e di Bari, e lì dentro a quelle carte segrete (ma mai effettivamente secretate, come dimostrano le pubblicazioni che escono a puntate su altri giornali) potrebbe esserci di tutto, e di più. E il tutto arriverebbe ai primi di giugno, proprio nel momento in cui il campionato di B emetterà i suoi verdetti (playoff e playout) e mentre la Nazionale di Prandelli starà partecipando agli Europei di Polonia-Ucraina. La giustizia sportiva ha fretta, è veloce e di solito non pulisce neanche il water del calcio che così ciclicamente mostra di non sapersi privare della solita melma. Quella che rivoluziona e cancella le graduatorie di meriti conquistati sul campo, per colpa del portiere avvelenatore, del terzino che ha incassato dai 40 ai 90 mila euro per perdere la partita, o per via del bomber caduto nella rete dei minacciosi ultrà che scommettevano a botta sicura per poi ritrovarsi imbrogliati dal loro idolo che di segnare nella “gara combinata” non ne voleva proprio sapere.

Uno scenario che a vario titolo vede tanti coinvolti: dalla piccola realtà, fino a ieri favolosa, del piccolo AlbinoLeffe, fino a Lecce. Il campanile italiano per una volta è unito dallo spettro delle condanne, finito sotto la lente di Sherlock Holmes-Palazzi, davanti al quale sono sfilati e sfileranno presunti innocenti che rimandano sempre le responsabilità a qualcun altro, magari un indonesiano di madre cinese che tifa Spal (nomi e personaggi di pura fantasia, si spera, ndr). L’ultimo a raccontare la sua verità sarà il tecnico dei campioni d’Italia della Juventus, Antonio Conte, che finalmente, dopo continui slittamenti, il 20 maggio risponderà al procuratore federale per vicende che lo riguardano quando lo scorso anno era l’allenatore del Siena.

Strano no? Come è strano che mentre il pallone annaspa c’è chi alza gli occhi al cielo e pensa che la cosa più importante per cui vale la pena “giocare” ancora è cucirsi tre stelle sul petto della maglia. Ma qui di cuore c’è rimasto solo quello di noi nostalgici - compreso il bambino col gelato -, che ci commuoviamo ancora vedendo che cinque campioni del mondo del 2006 (Inzaghi, Zambrotta, Del Piero, Nesta e Gattuso) che idealmente danno il loro addio a quel che resta del calcio italiano.

Massimiliano Castellani

lunedì 14 maggio 2012

Tutto sulla mamma-lunedi

Stagione senza stagioni

Una delle più belle immagini della madre che conosco è quella di De André nella sua Ave Maria:

«Ave alle donne come te Maria, femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che stagioni non sente». In un mondo in cui tutti sono disperatamente alla ricerca di ruoli, di profili interessanti, di riconoscimento, e in cui ci si aggrappa all’unica fonte di identificazione che sembra rendere possibile la propria desiderabilità sociale, ovvero la giovinezza, il grottesco è sempre in agguato, ma soprattutto lo è l’infelicità, individuale e collettiva.

La sensazione, guardandosi intorno in questo tempo così difficile e per molti drammatico che definiamo col termine sintetico di 'crisi', è quella di essere stati ingannati. Dai racconti su una libertà dallo sguardo corto e dai confini stretti, coincidenti col perimetro dell’io; da un’idea del legame come vicolo limitante la libertà, e quindi nemico della felicità; più in generale, dal rifiuto di ogni limite – nella relazione come nella crescita economica – come inutile pastoia all’espansione. Quella che è stata definita «la società eccitata» in un recente saggio filosofico, scivola molto rapidamente nella società grottesca: dove gli adulti, per dirla con lo psicanalista Luigi Zoja, sono degli eterni lattanti psichici, dipendenti da ciò che li fa 'stare bene', consumatori compulsivi occupati a prendere e dimentichi di dare. E il passo successivo è quello della società depressa, quando non disperata.

In questo quadro la figura della donna emerge con tinte non molto attraenti. Basta sfogliare le riviste femminili, guardarsi intorno mentre si cammina per le città, o si attraversano gli aeroporti; o seguire nel tempo le parabole esistenziali di quelle che per qualche momento sono state star, idoli, modelli di riferimento, e il cui declino, quando non drammatico in modo eclatante (penso, tra i tanti, al caso di Withney Houston), cade nell’ombra, oscurato dal passaggio altrettanto veloce di sempre nuove meteore.

Il messaggio che il contesto rimanda alle donne è molto elementare: devi essere giovane, bella, e saper sedurre. Quanto dura questa stagione? 10 anni, 20? Con la chirurgia magari 25... Il tentativo di prolungare artificialmente questa fase 'di transito' (peraltro così riduttivamente presentata) della femminilità, trasformandola – direbbero gli antropologi – da 'liminale' (il momento di passaggio a una nuova fase) a 'liminoide' (una fase sospesa e irreale che non genera nessun cambiamento e alla fine si dissolve lasciando il vuoto) ha prodotto effetti grotteschi. O drammatici. E non è un discorso moralistico, ma banalmente estetico. E, se si vuole essere un po’ più profondi, antropologico.

Io credo che alle donne sia stata regalata una possibilità di identificazione straordinaria, solida ma nello stesso tempo aperta.

Vincolante (ed è solo nel legame che si realizza la libertà, lo sapevano gli antichi per i quali è lo schiavo a non avere legami), ma nello stesso tempo passibile di una interpretazione creativa, che valorizza la singolarità di ciascuna. Quel 'protagonismo debole' che fa essere e crescere la realtà ricevuta in dono, che sa 'coltivare e custodire', che è capace di uno sguardo attento e sollecito che da nessun’altra prospettiva è possibile allo stesso modo; che sa dar spazio alla forza della vita, anche quando tutto intorno sembrerebbe spingere alla rinuncia. Che conosce la tenacia della speranza anche contro le evidenze. Una tenacia che produce tanti miracoli silenziosi.

E, soprattutto, che non è effimero, caduco, legato all’efficienza delle prestazioni. Che costruisce l’io relazionale a cui oggi si deve tornare se non si vuole dissolversi con le ceneri dell’io assoluto. E che lo costruisce in modo stabile, come un capitale identitario che nessuna crisi può mettere in pericolo, ma che anzi diventa una risorsa a cui guardare nel momenti di difficoltà. Una risorsa materiale e un modello antropologico.

La maternità non è un diritto, è un dono. E il figlio che accogliamo ci regala una identità generativa che nessuno ci può togliere, che dobbiamo imparare a valorizzare e che, in un mondo dove tutto muta con la velocità delle scoperte tecnologiche rendendo irrilevante tutto quello che 'rimane indietro', non ha stagione.

domenica 13 maggio 2012

Questa settimana :tutto sulla mamma

Le origini La festa della mamma è una ricorrenza diffusa in tutto il mondo.
Le sue origini sembrano essere legate alle antiche popolazioni politeiste che, nel periodo primaverile, celebravano le divinità femminili legate alla terra e alla sua ritrovata fertilità.
Nell’antica Grecia gli Elleni dedicavano alla loro genitrice un giorno dell’anno: la festa coincideva con le celebrazioni in onore della dea Rea, la madre di tutti gli Dei.
Gli antichi romani, invece, intitolavano una settimana intera la divinità Cibele, simbolo della Natura e di tutte le madri.


La festa in epoca moderna 
In epoca moderna la festa della mamma è stata interpretata e festeggiata in modi diversi a seconda della regione o dello Stato di riferimento. Tutte le tradizioni però hanno messo e mettono tuttora al centro la mamma e il suo ruolo all’interno della famiglia.

REGNO UNITO
In Inghilterra le celebrazioni legate alla festa della mamma risalgono al XVII secolo. Originariamente il “Mother’s Day” non era inteso come un’occasione per festeggiare la propria madre con fiori o regali, ma assumeva un significato completamente diverso.
La festività, chiamata "Mothering Sunday", coincideva con la quarta domenica di quaresima. In quell’occasione, tutti i bambini che vivevano lontano dalle loro famiglie, chi per imparare un mestiere e chi perché costretto a fare il servo per guadagnarsi da vivere, potevano ritornare a casa per un giorno.

A poco a poco si è diffusa la tradizione di riunirsi a metà del periodo di quaresima per festeggiare la propria famiglia e soprattutto la mamma, considerata un elemento fondamentale dell’unione tra consanguinei. I ragazzi che facevano visita alle loro famiglie portavano alle mamme fiori o altro genere di regali.
La tradizione del "Mothering Sunday" sopravvive ancora oggi in Inghilterra, dove è più comunemente conosciuta come “Mother’s Day” (Festa della mamma).

STATI UNITI D’AMERICA
A differenza dell’Inghilterra, negli Stati Uniti il "Mothering Sunday" non ebbe successo, dal momento che la popolazione era restia alle tradizioni popolari. Per questo motivo la festa della mamma si diffuse negli Stati Uniti come una festività legata ai movimenti sociali che chiedevano il suffragio alle donne e predicavano la pace.
Nel maggio 1870, negli Stati Uniti, Julia Ward Howe, attivista pacifista e promotrice dell’abolizione della schiavitù, propose l'istituzione del Mother's Day: un’occasione in più per riflettere sull’inutilità della guerra a favore di una pace duratura.
Altro nome legato all’origine della festività è quello di Anna M. Jarvis, che si batté per l’istruzione di una festa in onore di tutte le vittime della Guerra Civile americana. Dopo la morte della madre, alla quale era molto legata, Anna cominciò a inviare lettere a diversi ministri e membri del congresso, affinché venisse istituita una festa nazionale dedicata a tutte le mamme. L’obiettivo di Anna era quello di fare in modo che tutti celebrassero la loro madre, mentre questa era ancora in vita. Anna riuscì nel suo intento e nel maggio del 1908, a Grafton nel Massachusetts, venne celebrata la prima festa della mamma. L’anno seguente fu la volta di Filadelfia. La Jarvis scelse, come simbolo di questa nuova festa, il garofano: il fiore preferito dalla sua defunta madre.

Nel 1914 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson, per dimostrare profondo rispetto nei confronti di tutte le mamme, con una delibera del Congresso, istituì il “Mother's Day”. Non venne stabilita una data fissa sul calendario ma, per convenzione, si decise di celebrare tutte le mamme americane la seconda domenica di maggio.

ITALIA
In Italia la festa della mamma fu festeggiata per la prima volta nel 1957 da don Otello Migliosi, un sacerdote del borgo di Tordibetto ad Assisi. Successivamente la festa è entrata a far parte del nostro calendario e, come in molti altri Paesi, viene celebrata la seconda domenica di maggio.

RESTO DEL MONDO
Su esempio americano, quasi tutti i Paesi del mondo hanno fatto propria la festa della mamma con modalità e date diverse.

Di seguito riportiamo una tabella che illustra la posizione occupata nel calendario dalla festa della mamma nei diversi Paesi del mondo. 

· Seconda domenica di febbraio in Norvegia
· 30 Shevat (in febbraio) in Israele
· 3 marzo in Georgia
· 8 marzo in Bosnia, Serbia, Montenegro, Slovenia, Macedonia, Albania, Bulgaria, Romania
· Quarta domenica di quaresima in Irlanda e nel Regno Unito
· 21 marzo in Bahrain, Egitto, Libano, Siria, Palau, Giordania, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Yemen, Marocco
· 7 aprile in Armenia
· Prima domenica di maggio in Angola, Ungheria, Lituania, Portogallo, Spagna
· 8 maggio in Corea del Sud
· 10 maggio India, Messico, Oman, Pakistan, Qatar
· Seconda domenica di maggio in Australia, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Cina, Colombia, Cuba, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ecuador, Hong Kong, Italia, Giappone, Lettonia, Malta, Malesia, Paesi Bassi, Porto Rico, Nuova Zelanda, Perù, Filippine, Singapore, Sudafrica, Svizzera, Taipei Cinese, Turchia, Stati Uniti, Venezuela
· 26 maggio in Polonia
· 27 maggio in Bolivia
· 30 maggio in Nicaragua
· Ultima domenica di maggio in Francia, Svezia, Repubblica Dominicana, Haiti
· 12 agosto in Thailandia
· 15 agosto in Costa Rica
· Terza domenica di ottobre in Argentina
· Ultima domenica di novembre in Russia
· 8 dicembre in Panama
· 22 dicembre in Indonesia